Paesi di emigrazione
IndiaData di partenza
1970Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Il sogno di Roberta e del compagno Enrico, arrivati fino a Goa nel 1970 dopo un lungo viaggio dall’Europa, si interrompe sul più bello. Trascorse alcune settimane nel clima paradisiaco di Goa, un furto li lascia senza denaro e li costringe a trovare presto il modo di tornare a casa.
Durante le nostre passeggiate di perlustrazione, avevamo individuato un sito nei pressi di un promontorio oltre il fiume di Baga, in direzione di Anjuna, dove ci sarebbe piaciuto trasferirci.
Era giunto il momento di spostarci e di inaugurare finalmente la tenda, che ci eravamo portati da Londra in caso d’ emergenza e che non avevamo mai avuto la necessità di utilizzare.
Una bella mattina, dopo averne discusso con i nostri amici, lasciammo la casa, salutandoli calorosamente. Ci incamminammo con la tenda e poche altre cose, verso la nuova avventura.
Dopo quasi un’ora, individuammo il posto. Il luogo era incantevole, un angolo selvaggio tra mare e cielo, immerso nella vegetazione incontaminata. Da lassù potevamo vedere, non visti, i tetti delle capanne dei pescatori e seguire le loro attività quotidiane. Stabilito il punto ideale, piazzammo la tenda. Eravamo completamente soli in quel paradiso. Le giornate le trascorrevamo leggendo o nuotando nel mare cristallino sottostante. Dall’alto dello sperone roccioso mi divertivo, incantata, ad ammirare i delfini che giocavano, cavalcando le onde lucenti quasi ogni sera al calar del sole. Era uno spettacolo emozionante.
Sita, la giovane moglie di uno dei pescatori, con la quale avevamo stretto amicizia, ci preparava il cibo, lo stesso che consumava con la sua famiglia: riso e pesce al curry incredibilmente piccante, ma oramai avevo fatto l’abitudine a tutto quel peperoncino, oltre tutto un ottimo disinfettante intestinale. In compenso era una dieta leggera e priva di grassi, che mi permetteva di smaltire la ciccia accumulata con le tagliatelle e gli gnocchi di casa.
Cominciavo a tornare in forma e mi sentivo meglio, grazie anche all’attività fisica e alla vita sana. Di tanto in tanto, tornavamo nella nostra vecchia casa a far visita a Maurizio e Loretta e ne approfittavamo per tuffarci un po’ nella mondanità di Calangute e incontrare gente. Rientravamo poi alla nostra tenda, camminando sotto un cielo stellato o con la luna piena che illuminava a giorno il sentiero che si snodava attraversando la cima della collina, per quasi due kilometri. Una vita spensierata e che avrei voluto durasse per sempre, ma purtroppo, come in tutti i bei sogni, c’è un inizio e una fine a tutte le belle storie.
Enrico aveva l’abitudine di portare con sé tutti i nostri averi: denaro e passaporti. Eravamo soliti recarci in una piccola riparata insenatura sotto il promontorio per una nuotata. La spiaggia tutto intorno era deserta e non c’era anima viva per kilometri. Con lo sguardo potevamo abbracciare e tenere sotto controllo tutta la costa. Appoggiammo la borsa e i parei sul bagnasciuga e lentamente entrammo in acqua senza mai perdere di vista i nostri averi. Usciti dall’acqua, con sgomento, riscontrammo che la borsa era scomparsa.
Com’era possibile? Non c’era anima viva nei paraggi! Colti dal panico cominciammo a cercare ovunque; non riuscivamo a capacitarci. Com’era possibile? Entrambi eravamo stati molto attenti. Da dove poteva essere sbucato l’ipotetico ladro? Eppure la borsa non c’era più, volatilizzata come per incanto. L’angoscia prese il sopravvento. Disperati, non sapevamo più che pesci pigliare. Agitati chiedemmo notizie a chiunque incontravamo e alle mogli dei pescatori, le quali ci guardavano stupite, non capendo esattamente di cosa stessimo parlando: borsa, passaporti, soldi?? Persa ogni speranza, non ci restava altro da fare che recarci al distretto di polizia per la denuncia del furto.
Ci accolse il comandante, il ben noto sikh, con il quale, poco più di un mese prima, avevamo avuto l’odioso scontro sulla questione del ragazzino intoccabile che avevamo portato con noi da Bombay.
Ci ricevette con la sua solita aria sprezzante. Impassibile registrò la denuncia, fissandoci scettico sulla quantità di denaro da noi dichiarato, ancora convinto fossimo dei volgari mitomani. Disperati, senza un soldo né documenti, tornammo a Calangute nella nostra vecchia casa dai nostri amici. Increduli non trovavano le parole per consolarci. Fortuna che, prima di partire, avevamo prestato loro qualche centinaio di rupie che prontamente ci restituirono.
Non era gran cosa, ma perlomeno ci diedero la possibilità di ricominciare. Ci accompagnarono a recuperare la tenda e i pochi oggetti che avevamo portato con noi. Rifacemmo il sentiero che avevamo sempre percorso con tanto entusiasmo, come se seguissimo un funerale, silenziosi e a testa bassa, con un gran nodo alla gola e un senso di sconfitta che pesava come un macigno: il paradiso si era trasformato in inferno. Fortuna che avevamo lasciato la maggior parte delle nostre cose nella vecchia casa: abiti, macchina fotografica. Certo, magra consolazione.
Trovarsi in un paese straniero senza documenti e completamente al verde non era certo una sensazione piacevole. Enrico era un uomo che non si perdeva mai d’animo; aveva spirito di sopravvivenza e capacità di affrontare ogni avversità, con coraggio e determinazione. Io, in compenso, ero disperata. Negli anni ’70, a diciannove anni, ero ancora minorenne. Preoccupata, già prevedevo che avrei incontrato mille difficoltà per riavere il mio passaporto: dovevo ottenere un permesso scritto dalla mia famiglia e con i mezzi di comunicazione disponibili a quei tempi, ci sarebbe voluto parecchio tempo. Non c’era altra scelta. A malincuore eravamo costretti a rientrare a Bombay, per recarci all’ambasciata italiana.
Enrico decise di mettere in vendita tutto ciò che possedevamo e che fosse di qualche valore: la tenda, la macchina fotografica e persino i nostri effetti personali. Il mattino seguente, con tutta la banda, ci recammo al mercato di Calangute, stendemmo a terra dei parei colorati e sopra, in bella vista, posizionammo tutte le nostre cose. Enrico era straordinario nel coinvolgere e catturare l’attenzione di chiunque passasse accanto: attore e giullare nato, decantava con enfasi gli oggetti esposti, cercando d’invogliare la gente.
E ci riusciva brillantemente. Tutti ridevano divertiti apprezzando le sue esibizioni degne di un consumato professionista. Il risultato si rivelò un successo che andò oltre ogni aspettativa.
Vendemmo quasi tutto, compresa la tenda e la macchina fotografica che erano gli articoli più costosi, ma anche i più ambiti. Riuscimmo a mettere insieme una discreta somma, che ci permise di investire in bottiglie di una grappa prodotta localmente, il fennec, un liquore ricavato dalla noce del cajù, e di cui era vietata la vendita nel resto dell’India, in quanto sostanza alcoolica. Portandola a Bombay, ci avrebbe consentito di raddoppiare la cifra investita inizialmente e di rimpinguare le nostre magre riserve.
Il giorno seguente, con rimpianto, salutammo Maurizio e Loretta e prendemmo un tuc – tuc per Panjim, dove saremmo salpati con la nave che ci avrebbe riportati a Bombay.
I bagagli ridotti all’osso, ma, con noi, il prezioso carico di bottiglie, che non perdevamo mai di vista. La nave, come di consuetudine, era stracarica di persone e cose. Oramai abituati alla ressa e alla confusione, ci mettemmo alla ricerca di un angolino, dove fosse possibile sdraiarci per trascorrere la notte in santa pace. Pura illusione in un paese come l’India
La navigazione si svolse tranquilla. Il mare rimase generalmente calmo. Confortati da una piacevole brezza, eravamo pure riusciti a scovare un angolino per allungarci e dormire qualche ora, in santa pace. Scendemmo dalla nave. In tarda mattinata la pesante cappa tropicale ci avvolse con tutta la sua potenza; si era in prossimità dei monsoni e il senso di oppressione era diventato insopportabile. La discesa si era trasformata in un arrembaggio. La gente urlava, spingeva, una folla allo sbando. I facchini cercavano nella ressa di accaparrarsi i migliori clienti, mentre grasse matrone tenevano saldamente per mano i loro pargoli, intanto che i mariti contrattavano sul prezzo del trasporto bagagli, mercanteggiando animatamente.
Uno stress infinito. Tutti gli abitanti di Bombay erano in febbricitante attesa delle agognate piogge, che tardavano ad arrivare ma che avrebbero portato con sé un po’ di frescura.
Salimmo sul primo tuc-tuc libero, il popolare taxi locale a tre ruote, comunissimo in tutta l’India e particolarmente utile nel frenetico caos del traffico; poteva trasportare tre clienti oltre all’autista, ma il numero passeggeri variava a seconda delle richieste.
Intere famiglie con un’infinità di bagagli si accalcavano a bordo, occupando ogni minimo spazio disponibile. Nessuno ci faceva caso, salvo noi stranieri: era evidente che, in caso d’incidenti, il numero di vittime poteva trasformarsi in un numero significativo. Il Rex Hotel, data la stagione morta, era quasi vuoto e non fu difficile ottenere una stanza decente. Preso possesso della camera, la calura ci avvolse in tutta la sua potenza: sembrava fossimo giunti alle porte dell’inferno. Nella piccola stanza priva di aria condizionata, la pala sul soffitto girava vorticosamente creando un vortice ancora più bollente. L’impressione era che fossimo precipitatati all’interno di un forno acceso. Crollammo sul letto esausti. Le lenzuola parevano infuocate, perciò le tolsi dal letto e le ficcai sotto la doccia immergendole nell’acqua fredda. Le rimisi sul letto completamente bagnate e per un brevissimo lasso di tempo ci diedero un po’ di refrigerio, ma il beneficio durò pochissimo. La pala infernale le aveva asciugate in un baleno e tutto era tornato esattamente come prima.
Una notte da incubo!
Con nostalgia, tornavo con la mente al ponte sulla nave, dove, malgrado il caos, la brezza del mare ci consentiva di respirare a pieni polmoni l’aria fresca e, sopra di noi, avevamo lo spettacolo di un cielo stellato. L’unico modo per poter sopravvivere era quello di restare immobili e sperare che la notte passasse il più in fretta possibile. Con le prime luci dell’alba la camera si era leggermente rinfrescata. La stanchezza prese il sopravvento e riuscimmo a chiudere gli occhi per un paio d’ ore. Il mattino seguente, stanchi e sconvolti dalla notte praticamente insonne, ci preparammo per andare all’Ambasciata Italiana.
Eravamo stati informati che, data la nostra situazione, sicuramente l’Ambasciata ci avrebbe aiutati a rimpatriare, ma le informazioni si rivelarono una notizia del tutto infondata.
L’addetto che ci ricevette ci informò subito che Enrico, dato che era maggiorenne, entro pochi giorni avrebbe potuto riavere un passaporto nuovo, ma per me la situazione si faceva più complicata: ero ancora minorenne, per cui era necessario ottenere un permesso scritto dalla mia famiglia. Ciò avrebbe comportato un tempo di attesa assai più lungo. Non esistevano a quei tempi i veloci mezzi di comunicazione di oggi. “ No troppo rischioso” pensai. Poteva, però, aggiunse, rilasciarmi un foglio di via valido una settimana, entro solo dopo un paio di giorni. Lo guardai confusa. Non potevo credere alle mie orecchie. Con un nodo alla gola, trattenendo a stento le lacrime replicai: “ Ma come pensa che io possa tornare in Italia?” “ In aereo ” mi rispose candidamente. Continuai: “ Ma con quale aereo, se non ho un becco di un quattrino? ”
L’impiegato mi guardò perplesso e replicò: “ Mi dispiace, ma questo è tutto quello che posso fare per lei.”
Disperata, mi sentivo in trappola. Scoppiai in lacrime e tra un singhiozzo e l’altro gli chiesi che almeno mi prolungasse questo permesso di almeno due mesi, il tempo necessario per rientrare in Italia con i mezzi di trasporto pubblici. Mi fissò incredulo, ma acconsentì a estendere il permesso. Il giorno seguente, mi consegnò un foglio di carta intestato dell’Ambasciata Italiana, con la mia foto e i miei dati anagrafici in bella vista.
Sembrava impossibile che quel foglietto avesse un valore legale; temevo che alla prima frontiera mi avrebbero negato il permesso di oltrepassarla, ma non fu così: quel banale foglietto, che diventava ogni giorno più sgualcito, era un documento a tutti gli effetti.
Ci recammo subito alla stazione Vittoria per acquistare i biglietti del treno, che ci avrebbe ricondotti a Delhi. Dopo una interminabile fila e una lunghissima attesa giunse il nostro turno. Optammo per la soluzione più economica: due passaggi in terza classe.
Il viaggio sarebbe durato tre giorni, ci informarono alla biglietteria.
Con la vendita delle bottiglie di fennec acquistate a Goa, eravamo riusciti a trarre un buon margine di profitto e rimpinguare le nostre finanze, ma dovevamo stare molto attenti a spendere per non rimanere al verde, poiché il viaggio di ritorno in Italia sarebbe potuto durare a lungo.
Il viaggio
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