Mestieri
impiegataLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
GermaniaData di partenza
1990Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Rientrata in Italia dopo dieci anni di lavoro in Germania come impiegata del Ministero Affari Esteri, Maria Emanuela Galanti raccoglie le memorie di alcuni italiani emigrati incontrati in quel periodo. Tra questi: Vittorio, un anziano ridotto sulla sedia a rotelle che muore nella completa solitudine, nonostante le cure che gli vengono garantite dal sistema sanitario nazionale tedesco.
Di Vittorio mi è rimasta una fotografia sfocata, una vecchia foto di passaporto : lui vestito di tutto punto con un bel completo marrone e la cravatta celeste che richiama il colore degli occhi cerulei. Peccato che non si sia accorto di essersi posizionato troppo lontano dall’ obiettivo e che alla preparazione meticolosa sia seguito un risultato così modesto : Vittorio sorride di misura e guarda composto nel vuoto, vanificando gli sforzi della preparazione e allontanandosi dalla società senza che nessuno se ne accorga. Riferita all’ ordine delle relazioni umane, la mancanza di fuoco della foto simboleggia la lontananza di Vittorio dalla società, la diffidenza reciproca, i lunghi anni di isolamento trascorsi dal Vittorio che io ho conosciuto. All’ età di trent’anni e circa trentacinque anni prima del nostro incontro era cominciata la sua storia di emigrazione, alla chiusura del piccolo salumificio a conduzione famigliare che I’ aveva spinto a lasciare le montagne del Friuli. In Germania ed in altri paesi europei era venuto facendo il cameriere per stagioni alternate a periodi di malattia, poiché un incidente automobilistico aveva seriamente compromesso la funzionalità di una gamba. L’ altra gamba Vittorio I’ aveva persa pochi anni prima del nostro incontro a causa del diabete: un’ amputazione alla cui inevitabilità Vittorio non si era mai voluto rassegnare. Ora viveva intrappolato in una palazzina per anziani senza mai uscire dall’ appartamentino dalla superficie di circa 20 mq, passando dal letto alla sedia a rotelle. La protesi che avrebbe dovuto usare almeno qualche ora al giorno per non compromettere la funzionalità anche dell’ altra gamba era completamente abbandonata in un angolo della stanzetta, che durante le mie visite trovavo sempre impregnata dall’acro odore di fumo delle circa 20 sigarette che Vittorio continuava a fumare nonostante avesse subito già un by-pass. Le condizioni ambientali di per se stesse sarebbero state ancora decorose se Vittorio a causa della sua menomazione non avesse dovuto spostarsi in quello spazio ristretto con la sedia a rotelle, che non gli permetteva di accedere né al bagno né alla cucina. L’ uso dei servizi igienici era stato quindi progressivamente limitato nel tempo, tramite piccoli espedienti non sempre visibili al visitatore occasionale. Ma le barriere ambientali del monolocale erano quasi evanescenti al confronto di quelle immateriali che più spesse di qualsiasi parete si ergevano ormai tra Vittorio e gli altri. E gli altri di Vittorio erano ormai ben pochi : il sacerdote della Missione Cattolica, innanzitutto, che era presente agli appuntamenti del lunedì con il medico, uno sparuto medico della mutua, pagato dal Sozialamt, che indossava il suo camice in modo non dissimile a tanti suoi colleghi italiani e portava nella sua cartella da medico infinite carte e scartoffie, ma non medicine, bende o forbici. Ritualmente dispensava raccomandazioni sulla salute, non fumare, somministrarsi regolarmente l’insulina, ecc., che altrettanto ritualmente Vittorio disattendeva. Più sporadiche e brevi, ma comunque regolari, erano poi le visite di un ragazzo volontario della Caritas, che aveva il compito di comperare e recapitare il cibo personale di cui Vittorio faceva richiesta, in genere solo molte uova e un po’ di pane e pomodori. Le infermiere di turno preposte all’assistenza degli anziani invece non osavano quasi bussare alla porta, dopo qualche diverbio ed il ripetuto diniego da parte di Vittorio di usufruire del servizio a pagamento del lavaggio della persona. Nessuna meraviglia, quindi, che quella mattina del due dicembre millenovecentonovantotto, all’età di settant’anni, Vittorio sia morto da solo, mentre cercava invano di alzarsi dalla sedia a rotelle. Al suo funerale eravamo appena in cinque e né in Italia né altrove c’ era qualcuno da avvertire. Mi sembra che la storia di Vittorio, quasi destinata ad essere nutrita di dolore e di solitudine, sia emblematica. Io so bene che le condizioni della sua morte, che ad anni di distanza continuano ad apparirmi indegne della persona umana, non sono imputabili solo a fattori ambientali negativi, esterni alla volontà di Vittorio. So, per esempio, che dietro un “nessuno da avvertire in caso di morte” c’ è sovente l’incapacità di costruire relazioni umane positive : Vittorio aveva, in effetti, un carattere difficilissimo. So anche che, soli come Vittorio, si muore anche in patria, a volte abbandonati in una corsia d’ospedale o intrappolati dietro una porta chiusa da sfondare. Mi sembra però che la solitudine che circondava Vittorio da anni per poi materializzarsi negli ultimi si sia nutrita abbondantemente di quella vicenda d’emigrazione comune ai tanti come Vittorio che in Germania sono venuti, a partire dal dopoguerra, per pura necessità, spinti dal bisogno, senza una chiara strategia di sopravvivenza, abbandonati al proprio destino da una patria ingrata. Per tutti loro, come tanti mi hanno confessato, l’emigrazione è stata-è-sarà sempre un “male minore”, un’ alternativa alla fame e alla miseria. Ma questo male minore che pure inizialmente viene affrontato con il pieno vigore delle forze fisiche, e alleggerito da una buona dose di spensieratezza ed improvvisazione, se con il passare del tempo non cambia e rimane immutato, si fa metastasi. Una metastasi aggravata proprio da una pericolosa interpretazione della medicina e dei rapporti che intercorrono tra medico e paziente, assistente e assistito, dalla penosa sottovalutazione di quanto sia importante per una persona anziana un buon rapporto con un buon medico curante. Molti italiani infatti che rimangono in Germania nell’età della pensione, non trattenuti da alcun impegno famigliare, lo fanno nella convinzione che sia meglio sfruttare un sistema socio-assistenziale efficiente piuttosto che tornare in Italia e dover affrontare un sistema sociale, il nostro, molto più inefficiente e corrotto. Per quanto giustificata, questa opinione si rivela una pericolosa trappola nei casi come quello di Vittorio, dove una persona non integrata non è comunque in grado di usufruire delle opportunità concesse dal paese ospitante per mancanza di appartenenza e di potere contrattuale.
Un sistema sanitario, e la medicina innanzitutto, non sono una serie di referti medici o di strutture ospedaliere. Chi di noi, in Italia o all’estero non ha potuto sperimentare sulla propria pelle che la medicina è anche, o deve diventare, soprattutto il nostro rapporto con un medico e di quel medico con la nostra cultura? Comunicarci il risultato sfavorevole di un’analisi, esercitare autorevolezza e di ottenere convincimento, sollevare il morale con una battuta in dialetto, “saperci” con uno sguardo, sono aspetti dell’ attività di un medico che non possono essere sottovalutati e che anzi rivestono un’importanza letteralmente vitale. Negli ultimi mesi di Vittorio avevo maturato la convinzione che sarebbe stato molto meglio per lui se, ancor prima di ridursi nelle condizioni disperate di isolamento e di salute in cui io l’avevo conosciuto, fosse spontaneamente rientrato in Italia. Ma chi – mi chiedevo spesso quando andavo a fargli visita -farebbe qualcosa per Vittorio ora in Italia ? Quale personale medico o paramedico, quale gruppo di volontari, quale sacerdote, potrebbe ora stargli vicino ? Ma forse mi interrogavo e cercavo nella direzione sbagliata. Perché, per quanto feroce nell’ abolizione della privacy , è proprio la vita stessa in un paesino italiano a rendere impossibile la totale impenetrabilità della società alla nostre vite, quale Vittorio (e tanti come lui) I’ ha sperimentata in Germania. Ci sarà sempre, per noi italiani, se non una panchina in un parco ad accogliere le nostre meditazioni solitarie , uno spicchio di sole sulla piazza principale del paese dove accalcarsi tutti in cerca di calore …. E in questo spicchio di sole, scambiando qualche parola in dialetto con un coetaneo, si scioglierebbe, così credo, quella reticenza a confessare una sconfitta, che non ha permesso a Vittorio di ritornare in Italia. Si richiuderebbe un poco, anche se rimarginarsi del tutto non potrà mai, quella ferita iniziale che ha motivato l’emigrazione per tanti anziani ora rimasti in Germania e si potrebbe trovare una nuova prospettiva proprio per quel male minore, quell’alternativa alla fame, che per molti ha significato emigrare. Uno spicchio di sole sulla piazza principale del paese, ora mi dico mentre dal cimitero dove è sepolto Vittorio sento incombere i caseggiati alti di un quartiere operaio di periferia, è meglio di un appartamentino incapsulato tra altri in una città che non ci ha mai voluto conoscere e la cui lingua non parliamo, o parliamo senza comunicare. Due parole, parole insignificanti sui dolori nelle ossa o sul tempo meteorologico scambiate con un paesano sono meglio di nessuna parola. Senza parole, senza sole, senza qualcuno che porti alli esterno il nostro dolore, le abitazioni in cui viviamo sono solo destinate a nascondere agli altri la nostra vera condizione animale, rimangono patine scolorite dal tempo di un tempo che scorre impietoso, bozzoli dentro cui muore ignorata la crisalide che eravamo, la farfalla che non saremo mai.
Il viaggio
Mestieri
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