Mestieri
impiegataLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
PerùData di partenza
1947Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)L’avventuroso viaggio di Rosita e della sua famiglia diretta nel 1947 in Perù passa attraverso Londra e il volo sugli aerei dell’epoca. Per i protagonisti si schiude un mondo completamente nuovo e inesplorato.
La mattina del secondo giorno dovette recarsi in consolato per sbrigare alcune pratiche e definire la faccenda del soggiorno. Si fece spiegare dall’affittacamere e partì baldanzoso, a piedi. Nessun taxi, per carità. Non conoscendo il valore del denaro inglese tirava fuori dalle tasche tutte le monetine che vi trovava e lasciava che i taxisti si servissero da soli, e lo stesso accadeva con gli albergatori. Persino al pub, dove una sera era riuscito a bersi una birra mentre noi, scacciate malamente (e chi sapeva che le donne non devono entrare?) lo attendevamo fuori, come due cani in castigo. “Spero siano tutti onesti” disse filosoficamente. “Cosa te ne importa? Tanto, non lo saprai mai” gli rispondesti. Per non correre il rischio di farsi infinocchiare volle fidarsi del suo senso di orientamento e della sua capacità di districarsi in terra straniera. Una specie di prova generale. Era partito verso le nove del mattino e, a mezzogiorno, ancora non si era visto. Eravamo allarmate. Cosa avremmo fatto, se non fosse tornato? Se si fosse perso, se fosse stato derubato; o investito o chissà cos’altro: Finalmente lo vedemmo arrivare, scarmigliato, stanco e furioso. “Ma che ti è accaduto, per amor del cielo?” chiedesti, allarmata. “Sono finito sotto una bicicletta e quella pazza ha chiamato un vigile per farmi arrestare. Veniva da sinistra, capisci? E io ho cercato di farglielo capire. Ci siamo arrabbiati. Lei continuava a mostrarmi la sua bicicletta rovinata. E guarda io, in che stato! Ho guardato a destra, ma quella veniva da sinistra. Ho capito dopo che tutti viaggiano a sinistra. Ma qui sono pazzi. Meno male che domani partiamo. Dell’Inghilterra ne ho fin sopra i capelli”.
Il mattino seguente, sotto il primo sole che vedevamo dal nostro arrivo, prendemmo l’ultimo taxi inglese per recarci al terminal. L’autobus ci portò all’aeroporto e lì ci imbarcarono sull’aereo che ci avrebbe portati a destinazione. Vedemmo scomparire le nostre valigie giallastre e rimanemmo con una valigetta striminzita, nella quale non c’era nulla di più di qualche fazzoletto, il necessaire da barba di papà, alcune paia di calze e calzini, un paio di saponette. Niente pigiami o camicie da notte: mai si pensava di dover ancora scendere in albergo. L’aereo era un quadrimotore che, coi suoi quattrocenti chilometri orari, ci sembrò un fulmine. Eravamo solo diciotto passeggeri e cinque membri dell’equipaggio. Non ho mai capito quale fosse la differenza fra la prima e la seconda classe, perché si era tutti seduti allo stesso modo. Forse a quelli di prima – cioè a noi – davano un vitto più raffinato. Non so. Certo è che passavano in continuazione con vassoi pieni di tentazioni: uva, caramelle, bibite. E chewing-gum. Ti ricordi? Quando vedemmo quei confetti quadrati ci demmo uno sguardo d’intesa. Eh, no, le caramelle che parevano di gomma non ci interessavano. Non c’era cabina altimatica e io, con residui di sinusite, cominciai a soffrire le pene dell’inferno. Altro che le orecchie d’asino di Pinocchio: le mie parevano essersi ingigantite fino a comprendere tutto l’aereo, minacciando di scoppiare. Quando arrivammo alle Azzorre, primo scalo, dichiarai decisa che non intendevo proseguire. “Non hai altra scelta” mi dicesti tu. Non ne avevo. Papà spiegò il mio problema alla hostess e lei ci svelò il mistero delle caramelle che si masticano sempre e non si ingoiano mai. Eccoci aperte le porte della modernità.
Il mondo si apriva come un’arancia e noi ne avevamo appena annusato uno spicchio. Era ancora tutto da scoprire. Si arrivò in Colombia senza altri inconvenienti, nel tardo pomeriggio di una giornata caldissima e soleggiata. L’albergo, lussuoso e confortevole, disponeva di una bella piscina e parecchi passeggeri, nonché tutti i membri dell’equipaggio, decisero di approfittarne. Papà avrebbe voluto fare altrettanto, ma nel nostro bagaglio a mano non c’era nulla di utile in merito. Dopo una bella doccia ci rimettemmo i nostri vestitucci e, sudati ed affranti, sedemmo sul bordo della piscina a consolarci con le capriole altrui. Arrivò l’ora di cena e papà ebbe la sorpresa della sua vita quando gli fu detto, da un inflessibile cameriere, che non avrebbe potuto accedere alla sala da pranzo se non impeccabilmente impacchettato in abito da sera, con tanto di giacca e cravatta. E lui, poveruomo, giacca e cravatta le aveva, sì, ma non certo da sera, e talmente stazzonate da sembrare un profugo, non solo un emigrante povero. Intervenne allora il cortese passeggero che aveva deciso di prendere sotto la sua protezione noi poverelli. Era un soggetto mondanamente disinvolto al quale la guerra aveva offerto l’opportunità di portare a termine operazioni non troppo limpide. Lo confessò senza indugi, sapendo che non eravate, voi due, in grado di arrecargli danno alcuno né di spargere tali confidenze in luoghi pericolosi. Un cenno suo, e il cameriere lasciò passare papà. Noi, sebbene non proprio eleganti, eravamo comunque accettabili, per fortuna. “Non avrei mai pensato di poter cenare in un posto simile” avevi detto. Né lo facemmo mai più. Il caldo ci tenne svegli quasi tutta la notte. Non c’era aria condizionata e usammo a turno la doccia varie volte, nel tentativo di trovare un pochino di sollievo.
Dopo il caldo torrido della Colombia ci aspettavamo altrettanto da Lima. Invece fummo ricevuti da una grigia e fitta ‘garùa’, l’immancabile pioggerellina invernale. Ad attenderci c’era l’amico del cugino Ovidio, il quale ci disse di vestirci, perché si era in inverno e, sebbene la temperatura non scendesse mai al di sotto dei tredici o quattordici gradi, l’umidità era elevatissima. Ci sistemò in albergo e disse che sarebbe tornato il giorno seguente per accompagnarci nel disguido delle pratiche, presentare papà ai direttori della fabbrica che aveva la sede amministrativa nella capitale e altre, cosucce. Per la destinazione finale saremmo partiti due giorni più tardi.
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