Mestieri
operaioLivello di scolarizzazione
licenza elementarePaesi di emigrazione
SvizzeraData di partenza
1954Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Tra gli episodi che Giovanni ricorda del suo primo periodo da emigrato in Svizzera, c’è n’è anche uno a sfondo razzista, con un pompiere locale che dava fuoco alle fattorie di zona per far ricadere la colpa sugli immigrati.
Nel 1955 trascorsi un mese in Italia, poi ritornai in Svizzera. In primavera, recandomi a tagliare l’erba per le mucche, a un certo punto finì la benzina e dovetti tornare a casa a prenderne una tanica, per continuare a lavorare. L’andata e il ritorno dovetti farli a piedi. Nel ritorno incontrai una donna, la salutai e proseguii. La donna notò che io avevo la tanica di benzina, ma non sapeva per quale fabbisogno mi serviva. Per una strana coincidenza, dovetti passare vicino alla casa di un contadino, la quale la notte successiva era stata bruciata. Io sono dell’avviso che chi la incendiò mi notò con la tanica e approfittò dell’occasione per farmi incolpare. Nei giorni successivi fui accusato dell’incendio: la polizia mi portò avanti e indietro con l’automobile. Io ero contento, perché così non lavoravo, mentre il padrone si arrabbiava. A un certo punto la polizia si accorse che io ero innocente. I protocolli erano sempre gli stessi: io ero limpido, non c’erano intoppi e così mi lasciarono in pace. Nei giorni seguenti incendiarono ancora una volta: qui non avevano proprio dove attaccarsi, ma questa volta fu coinvolto un altro italiano. Questi purtroppo finì dentro, al fresco (in prigione), solo perché lui beveva e la tesi non risultò fondata. Dopo si salvò anche lui, perché continuavano a incendiare le fattorie e anche una fonderia. Così scoprirono che era un pompiere razzista, perché era sempre lui il primo a dare l’allarme. Sempre nel 1955 mi resi conto che il lavoro del contadino non era per me; io avevo voglia di imparare, avevo la passione per la scuola, ma come andarci? Alla fine del 1955 tornai in Italia, con l’intenzione di fare la carriera militare. Passai la visita per arruolarmi, ma poi fui sconsigliato da mio cugino, che era dia nella polizia. Il mio defunto cugino mi disse: “Se hai un lavoro in Svizzera, stai lì, perché, quando ti metti la divisa addosso, è come una camicia di forza e non te la togli più”. Abbandonai anche questa idea, anche perché non ne ero proprio portato.
Ritornai in Svizzera, ma cambiai padrone; pensavo che almeno avrei potuto mangiare abbastanza, anche perché aveva un ristorante, invece era sempre la stessa cosa: poco mangiare e molto lavoro. Egli mi prese in simpatia e, quando la moglie si dedicava al ristorante, tornava in cucina, mi chiamava e così mi riempivo lo stomaco. Alla fine del 1955, le feste natalizie pensai di passarle con la mamma in Italia. Controllando il passaporto, lo trovai scaduto. Mi recai dal Consolato: per pigrizia mi risposero che potevano rinnovarlo anche in Italia. Nel mese di gennaio del 1955 mi recai in Questura e mi dissero che ci voleva il contratto di lavoro. Ci rimasi male, ma poi telefonai al primo padrone, che mi mandò un nuovo contratto. Rinnovai il passaporto e ripartii da contadino. Nel periodo estivo c’era molto lavoro e perciò veniva una famiglia svizzera ad aiutarci. Era una bravissima famiglia, forse perché i poveri sono sempre umili. Avevano una figlia già signorina e io cominciai a corteggiarla; sembrava che ne avessero piacere anche i genitori. Io mi confidavo con loro ed essi si mostravano aperti nei miei confronti. Gli dissi: “Io faccio il contadino, ma solo per ripiego, ma non è per me”.
Il viaggio
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