Mestieri
perito agrarioLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
MozambicoData di partenza
1978Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Roberto descrive il primo impatto avuto nel 1978 con il Mozambico, e in particolare con la capitale Maputo, il luogo dove lavorerà per alcuni anni nell'ambito della cooperazione allo sviluppo.
Il nostro nuovo aereo, Linee Aeree Mozambicane, decollò con tre ore di ritardo. Fu il primo impatto con questa compagnia che non avrebbe mai finito di stupirmi per gli anni a seguire. Su quel vetusto “737”, eravamo solo in dieci, dato che la notte dell’ultimo dell’anno generalmente la gente non viaggia, se ne sta a casa. Fra questi oltre a noi tre, altrettanti rumeni e quattro mozambicani. Dopo neanche mezz’ora, il volo dura quasi tre ore, incappammo in un forte temporale tropicale (direi più che altro un uragano) ed il nostro viaggio cominciò ad essere movimentato da tuoni e fulmini che scuotevano il nostro apparecchio come un fuscello. Bruno, impassibile nella sua camicia abbottonata e maglione di lana che non aveva mai tolti neanche nei quaranta gradi, ottantacinque per cento di umidità, di Lusaka, cominciò improvvisamente, senza che il suo volto fosse rigato da una sola stilla di sudore, a cambiare di colorito. Non sembrava certamente colui che affacciandosi al portello dell’aereo, arrivando nella capitale zambiana, aveva urlato, lasciandoci sorpresi e sconcertati: “Africa sei mia!”. Oltretutto percuotendosi il petto con i pugni a mò di Tarzan. Alcuni minuti prima dell’arrivo su Maputo, l’aereo cominciò la manovra di discesa, il pilota, probabilmente un ex kamikaze, si gettò letteralmente in picchiata nell’intento, forse, di affondare una nave americana. A qualche centinaio di metri di quota, si ricordò che la seconda guerra mondiale era finita da un pezzo accorgendosi che aveva mal imboccato la traiettoria di discesa. Pertanto rapida risalita in quota e poi, di nuovo, altra discesa, altro errore, altra risalita. A questo punto Girotti era passato più volte dal grigio perla al verde marcio e fu la fine. Da dove eravamo seduti non vedevamo più il nostro sfortunato collega ma, improvvisamente, una nuvola simile ad un fungo atomico si levò dal posto dove era seduto. II poverino aveva vomitato ma, forse a causa della pressurizzazione, sembrava che fosse esploso. Dopo pochi secondi la “nube radioattiva” si era polverizzata, raggiungendo i rumeni che erano seduti due file più dietro. Questi, forse bestemmiando nella loro lingua, forse augurando al nostro malcapitato amico di essere sodomizzato dai loro antichi invasori, i turchi, cominciarono a strofinarsi í vestiti nel vano tentativo di pulirsi. Constatato che il pericolo sembrava passato, io e Turri cí avvicinammo guardinghi, per cercare almeno di ricomporre il cadavere. Uscendo dall’aereo, all’arrivo, le assistenti di volo non lo degnarono di un saluto, mentre i rumeni continuavano a bestemmiare ed augurargli disgrazie tremende.
Avevamo toccato terra finalmente, erano le ventitré, ad accoglierci trovammo alcuni italiani, tutti cooperanti del Ministero dell’Agricoltura. Fummo caricati su di un Toyota e condotti a casa del rappresentante della Lega in quel paese, dove era stata organizzata una festa per salutare l’arrivo, non nostro ma, del 1978. C’era tanta gente di cui non ricordo ne il nome ne il volto, visto che stavo sveglio per miracolo, ero partito dalla mia città trentasei ore prima. Mi rammento solo di aver mangiato della macedonia, di aver brindato all’anno nuovo, oltre ad un tipo che girava per le stanze vestito di un baraccano arabo mostrando a tutti, sollevando il bordo del pittoresco abito, il punto dove era stato punto da una zecca e non è certo difficile immaginare dove si era formata la bozza. Poi, nebulosamente di aver fatto il viaggio da casa di Solmi all’Hotel sotto una pioggia torrenziale. Era il Turismo, niente male in confronto all’Aviz od alla Pensione Santa Cruz, che poi ebbi modo di vedere, in cui furono alloggiati alcuni miei colleghi. Nella stanza, al terzo piano, avevo addirittura la moquette, bagno e frigobar (vuoto), la biancheria sembrava pulita. Nello stato ipnotico in cui mi trovavo mi sembrò di vedere nel letto il paradiso e mí addormentai come un sasso. Solo il giorno dopo notai le numerose pecche fra cui l’ascensore guasto da sempre, l’impianto dell’aria condizionata (spirato alcuni anni prima), gli enormi buchi nelle lenzuola in cui poteva entrare una gamba, í giganteschi bagarozzi, ecc.
Il primo impatto con la realtà africana era stato notevolmente assorbito dalla sosta di Lusaka e, arrivando in Mozambico, non mi sarei mai immaginato di trovare una città come Maputo, non diversa da qualsiasi metropoli europea, con palazzoni e traffico. Unica differenza le facce della gente, nere invece che bianche. Debbo confessare che la prima volta che mi trovai “circondato” da africani, provai una sensazione strana, senza dubbio originata dai racconti salgariani letti da bambino, i fatti di cronaca, di guerra e di guerriglia (tipo Mau-Mau) riportati dai giornali o visti alla TV, tutte cose pubblicate e diffuse per la loro drammaticità, Per questo provai, come credo daltronde la maggior parte della gente, prima di conoscere direttamente questa realtà, se non proprio timore, una certa tensione emotiva. Ma l’africano non va certo immaginato con la faccia atteggiata a ghigno orrendo e satanico, armato di zagaglia e coltellaccio, mentre scanna o mutila dei poveri coloni indifesi. In realtà, in quasi tutte le situazioni storiche in cui bianchi e neri si sono scontrati, il bianco è sempre stato l’invasore ed il nero, poveretto, le ha sempre prese. Chi ha eletto la guerra a sterminio, se non altro per i mezzi e le tecnologie impiegate, siamo noi. Ricordo che da ragazzo guardavo con ansia i cinegiornali che ci facevano vedere i “misfatti” dei guerriglieri Mau-Mau in Kenia, descritti come bestie sanguinarie che uccidevano e violentavano senza pietà. Indubbiamente per tutti noi i cattivi erano loro non certo i “buoni figli di Albione”. Solo da alcuni anni si è saputo che in tutta la guerra per l’indipendenza di questo paese sono morti sessanta europei in tutto e ben sessantamila (si proprio sessantamila) kenioti. Un rapporto di uno a mille.
Molte sono le cose che “colpiscono” i tuoi sensi in una città africana, che te la fanno “toccare”. Il “brulichio” della gente, simile a quello di un formicaio stuzzicato con un bastoncino, la melange dei mille colori vivaci dei vestiti delle donne, il contrasto di questi con i volti neri e lucidi, il profumo dolciastro delle spezie mescolato gli effluvi, non certo gradevoli, dei mucchi d’immondizia e delle fogne a cielo aperto.
Il giorno dopo, verso le dieci, uscimmo dall’ Hotel per la nostra prima visita alla città. Era una magnifica giornata estiva e la nostra prima meta fu il Bar Scala, che ci avrebbe visti presenti moltissime altre volte nei due anni seguenti.
Prima dell’indipendenza Maputo, stesso nome del fiume che la costeggia a Sud, il più meridionale del paese, si chiamava Lorengo Marquez,. a ricordo dell’omonimo navigatore portoghese. La città è divisa in tre parti ben distinte. La zona bianca, centrale, definita da quattro larghissimi e verdi viali paralleli al mare, con due prolungamenti costieri verso Nord ed Ovest (Costa du Sol e Matola). Di cui il centro, concentrazione di eleganti palazzi e qualche grattacielo, vero cuore commerciale di Maputo, è chiamato “a Baixa”; appunto la parte più bassa di questa città che dal mare si espande verso le colline circostanti. Salendo si raggiunge, dopo qualche centinaio di metri, la parte più alta contraddistinta da una stretta fascia di abitazioni che divide di fatto la città bianca da quella nera, si tratta del quartiere degli indiani. Questi, quasi tutti ricchi commercianti, certamente più razzisti dei coloni, volendo distinguersi dagli africani, ma non potendo istallarsi nella zona bianca che gli era preclusa, hanno dovuto accontentarsi di una collocazione intermedia tra le due comunità. Subito dopo cominciano i quartieri africani, anche se è un eufemismo chiamare con questo nome un agglomerato di miserabili abitazioni di latta e paglia, servizi inesistenti, niente luce elettrica ed acqua corrente. Strade fangose ed erose dagli improvvisi acquazzoni che le trasformano in torrenti di fango che trascinano via case improvvisate e qualche bambino. E’ la parte più impressionante per l’espansione incontrollata che ha avuto negli ultimi anni. Sorvolando in aereo “o canigo” (il canneto), è questo il nome che la gente gli ha dato riferendosi ad uno dei materiali da costruzione qui più usato, si rimane impressionati nel vedere questa enorme distesa di capanne e baracche che da ogni lato circonda la città vera e propria, che appare come un’isoletta in mezzo al mare dei tetti di lamiera.
Ritorniamo al caffè Scala, sulla “25 de Junho”, la via principale, in piena Baixa. Qui, quel primo gennaio 1978, incontrai altri italiani arrivati già da qualche tempo, il posto era considerato il punto di ritrovo dei cooperanti europei (nel 1982 fu distrutto da una bomba che fece morti e feriti n.d.a.). Oltre ad essere un caffè, tavoli dentro e fuori sul marciapiede, lo Scala era anche una pasticceria. Noi ci sedemmo all’esterno ed ordinammo alcuni dei pochi dolcetti disponibili. Fu li che comprai per la prima volta l’unico quotidiano locale “Noti9ias”, venduto per le strade da frotte di strilloni invadenti. E fu li appunto che feci le mie prime conoscenze con altri cooperanti italiani e stranieri, una buona parte “passionari” venuti a vivere in prima persona il mito della rivoluzione e destinati invece a vivere solo frustrazioni. I mozambicani, pur nell’estrema manifestazione di gratitudine per il loro militantismo rivoluzionario, non avevano nessuna intenzione di renderli partecipi di quella che a ragione consideravano la “loro rivoluzione”. Regola prima, gli stranieri (i cooperanti) erano chiamati e ben accetti per il ruolo tecnico che potevano svolgere non certo per far politica.
Il viaggio
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1978Periodo storico
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