Mestieri
assistente tecnico, contadinaLivello di scolarizzazione
diploma scuola media superiorePaesi di emigrazione
Sud AfricaData di partenza
1996Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Temi
viaggioTemi
viaggioDopo aver subito un’aggressione in Sudafrica, Francesca e la compagna Sandy testimoniano al processo contro gli uomini che le hanno derubate e percosse.
Il processo è già iniziato ma ormai il nostro aereo da prendere ad Umtata a mezzogiorno sembra irraggiungibile. Chiamano a testimoniare Sandy mentre devo rimanere fuori perché non posso assistere alla sua deposizione. La sala del processo è gremita, c’è tanta gente, uomini e donne, alcune sedute con i ventagli in mano. Questo accadimento deve aver avuto una certa risonanza nella zona per attirare qui tante persone ed attenzione, inoltre le televisioni non esistono e se si vuole assistere ad eventi interessanti occorre venire in tribunale. Mia madre mi racconta spesso di frasi mitiche pronunciate durante alcuni processi negli anni cinquanta e poi diventate di uso comune, me ne sovviene una in particolare: “Non ho visto niente, non ho sentito niente e poi mi hanno detto che non devo dire niente” e con questa dichiarazione sono finiti in galera lui ed il suo compagno. Ci sono anche il capo ed il suo amico Elliot. Converso un po’ con loro. Il capo si lamenta perché da quando la gestione di questo posto è finita in mano agli africani è diventato tutto sporco e malconcio, quando invece c’erano i bianchi era tutto molto bello, c’era un bellissimo giardino ed era tutto ordinato e pulito. Con un occhio perlustrativo cerco di immaginarmi un prato dall’erba corta e rose ben curate e poi vedo anche ciò che c’era prima dei bianchi: arbusti, alberi e vita selvatica. Il capo si allontana e da noi arrivano altre persone intenzionate a parlare con Elliot trattandolo con molto rispetto. Mi indicano il padre di uno dei ragazzi che ci ha derubate. Si vede che è un padre severo e appare prostrato dal comportamento di questo suo figlio, cammina con un bastone, non so perché mi suscita tenerezza, vorrei avvicinarmi dargli un po’ di conforto ma la diversa lingua mi blocca. Rammento il momento di esitazione che c’era stato durante l’attacco quando Sandy urlava che lo avrebbe detto ai loro padri. La sua non era un’intuizione così errata. Chiedo se qualcuno sa dove si trovi la cagnoletta, sono entusiasti nel raccontarmi che è finita con un nuovo padrone nello stesso villaggio di George e Gertrude. Questa notizia mi rincuora, mi dà conforto che abbiano avuto l’accortezza di riferirmi dove sia il piccolo essere che ci ha accompagnate in questa disgraziata avventura. La sensazione che ho è comunque quella di essere nei panni di quelle “idiote” americane che negli anni settanta venivano in Italia. Mi ricordo vagamente i commenti, non troppo lusinghieri, dei miei genitori e conoscenti. Personalmente le vedevo come delle sprovvedute un po’ sciocche che arrivavano con questi occhiali da sole e tutte le loro entusiastiche esclamazioni. A me sembravano proprio ridicole e quando erano vittime di qualche inconveniente si diceva “ma dove vanno queste, non capiscono niente, perché non se ne stanno a casa loro!”. Cerco di spiegare questa mia sensazione a Elliot, gli dico che non so se è così giusto presentarsi con tutto il nostro benessere a questi ragazzi giovani che in fondo volevano soprattutto le nostre scarpe. “No” è il suo commento immediato. In tutta serenità mi rassicura con fermezza che loro non avevano alcun diritto di aggredirci per rubare ciò che era in nostro possesso. La realtà dei suoi confini è talmente solida e chiara che non consente replica. La mia mente, immersa nell’angoscia dei miei dubbi, si posa nella tranquillità che Elliot mi comunica con la sua presenza. Il consigliere del capo, riverito almeno quanto il capo stesso, mi confida che una delle sue figlie sta studiando in Europa. Vedo nei suoi occhi brillare tutte le sue speranze per il futuro. Tergiversano commentando ancora l’accaduto.
Comprendo che questi uomini sono un po’ risentiti dalla mancanza di riconoscenza di Sandy e dalla sua insoddisfazione ed insofferenza. Cerco di spiegarlo con il mio inglese e loro mi osservano perplessi capendo le mie buone intenzioni ma stupiti di quello che dico. Infine uso altre parole ed altre frasi e loro si rilassano, riesco a comunicare che non approvo il comportamento di Sandy. La notizia dell’arresto è finita sui giornali locali che i nostri amici ci mostrano con orgoglio. La notizia è ingigantita ed anche l’entità del furto, a dimostrazione che i giornalisti di tutto il mondo hanno spesso le stesse tendenze. Compaiono i nomi dei ragazzi e mi accorgo che non riesco a pronunciarli. Mi chiamano a testimoniare. Il giudice è giovane ma molto serio, anche un po’ altezzoso, non ha nessun atteggiamento ossequioso o aggressivo nei nostri confronti, in sua presenza anche Sandy riesce a contenere le sue esternazioni; l’aula è piena di gente, alla mia sinistra c’è l’interprete che traduce tra xhosa e inglese. In inglese il giudice mi chiede qualcosa che intuisco sia la richiesta di prestare giuramento, ma io non so la formula precisa che devo recitare e così mi blocco. Pausa di panico. “Do you believe in God!” alla fine mi domanda il traduttore ed io alzo la mano destra ed esclamo “YES!”. Ma il giudice non è molto convinto e mi chiede se sono in grado di sostenere il processo in inglese. Quello che voglio affermare è “Se lei ha pazienza posso spiegarle tutto con lentezza” ma, invece di pronunciare “if you have patience” finisco per dire “if you have passion” cioè “se lei ha passione”. Dopo un attimo di generale imbarazzo, anche da parte del pubblico presente in sala, il giudice si affretta a risolvere che la testimonianza di Sandy è molto chiara, convincente e sufficiente e quindi decide di congedarmi all’istante. E dunque la mia figura da scema è completa, e pensare che la mia maestra mi considerava tanto intelligente. Esco dall’aula in una crisi di confusione e rammarico. Un’ultima conversazione con Elliot mi dà un qualche conforto. Mi osserva pensieroso e penetrante soppesando una frase che mi lascia piuttosto sorpresa: “scriverai un libro su questa storia”. Forse sono i miei occhialetti, che mi conferiscono una vaga aria da intellettuale, ad avergli suscitato questa idea.
Non è assolutamente più possibile prendere il volo di mezzogiorno ma, per un evento veramente fortuito, ne è stato organizzato un altro straordinario per il pomeriggio e la nostra prenotazione è stata quindi spostata. Sandy vuole andarsene il prima possibile, con tutto ciò che le è successo non resiste più in questo ruolo che si è messa addosso, di saggia e forte donna africana, vorrebbe giustamente scoppiare a piangere e lasciare andare le proprie emozioni, ma ancora non è il momento. Tenendo a freno tutto questo tumulto interiore, tratta tutti malissimo e continua ad essere insoddisfatta nonostante tutta la disponibilità dimostrata, dal mio canto mi rendo conto che siamo in debito con tutte le persone incontrate per la generosità e pazienza con cui siamo state trattate. Ci consegnano tutti gli oggetti ritrovati: le scarpe mie e di Sandy, la torcia, la giacca, le candele, le creme, è di nuovo tutto nelle nostre mani, ma ogni oggetto ha un peso inverosimile. Ci infiliamo le scarpe più pratiche rispetto ai sandali che indossiamo ora, provo ad accendere la torcia per rassicurarmi con successo che funzioni ancora, pigiamo ciò che è tornato in nostro possesso negli zaini. Scappiamo da Port St. Jones senza infine salutare nessuno.
Il viaggio
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