Mestieri
operatrice turisticaLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
Stati Uniti d'AmericaData di partenza
1978Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Da Milano al Lussemburgo, poi in aereo in Islanda e infine negli Stati Uniti. Il viaggio di Gloria Bortolotti, nel 1978, è all'insegna dell'avventura.
Martedì 7 novembre
Dopo una notte d’attesa madame Mears, efficiente organizzatrice, mi pilota all’Icelandic; un impiegato fa quattro cose alla volta in 5 lingue, riscrive tre volte il mio biglietto – tariffa dell’ultimo minuto, sola andata, ritorno libero, 110 dollari – e mi vende anche il tesserino greyhound da 30 giorni, con cui potrò girare in autobus dove e come voglio tutta l’America e il Canada nel mese in cui dovrò comunque restare in U.S.A.
Per arrivare all’areoporto findel, dove intanto Simone Mears mi fisserà i posti, prendo un bus urbano che passa per il centro della città, e dall’alto contemplo Lussemburgo, splendido borgo medioevale incassato in gole e calanchi, con deliziosi castelletti tutte punte ferree e variopinte, in fondo a una vallata.
Alle 9 del mattino belle ragazze si lavano a torso nudo nei W.C. delle «Ladies» dell’areoporto. Posto vicino al finestrino, addio al continente sbarco in Islanda. Mi pare di approdare in un mare di nubi, e invece è neve alta. Splendido arrivo e partenza (dopo un giro nel duty free shop pieno di articoli di foca e renna) e già si accendono le luci mentre ancora i raggi del sole accecante calano dalle nubi. un riflesso lievissimo, sfumato come un guardi, mi ricorda Venezia.
In quell’attimo, come Kerouac, ho l’impressione di essere un’altra e altrove senza più riconoscermi. Denver, Denver… ci arriverò mai? Denver come Cordova, lontana e sola, speranze, ricordi, nostalgie?
Se ci fossero i pinguini (ma stanno al Polo Sud) potrebbero salu- tarci agitando le code del frac. La groenlandia, meraviglioso con- tinente ibernato nel bianco e nel verde, finisce sull’oceano carta da zucchero dove la neve si scioglie piano piano e qualche onda comin- cia a increspare l’immobile mare di primavera.
Vedo avanzare un gregge bianco, nubi a perdita d’occhio. Aguzzi picchi gelidi, forse gli «icebergs» che gli sceicchi meditano di porta- re tagliati a pezzi, a dissetare il deserto? rinuncio a capire, bisogna che dorma un po’ perché la mia giornata è cominciata alle 6 di ieri mattina e devo avere ancora forze per la sera a new York; riuscirò ad andare all’università già domani?
quando riapro gli occhi il riflesso del sole si è trasformato in un rosso il cielo è ancora più azzurro e penso alle notti bianche di Pietroburgo. Sarebbero le 21.30 e c’è più luce che in pieno giorno a Milano.
Ecco la terra ferma; in un’ora buio profondo anche se l’orizzonte mantiene una linea chiara. I piccoli paesi illuminati sembrano costellazioni rovesciate. L’aereo si rialza in vista di new York, torna nel cielo per planare; sullo sfondo l’approdo turistico con tre alberi tutti illuminati trasforma in un vascello incantato l’arrivo ad alta tecnologia dove il manovrare meccanico del «tube» attaccato al fianco dell’aereo ci risucchia con precisione e rapidità verso veloci control[lori] che si preoccupano soltanto di sapere se ho portato regali a parenti.
All’Alitalia mi dicono che è pericoloso girare sole dopo le 20. Chiamo lo Sloane che ha cambiato numero, e lì mi confermano che sì, dormirò in un letto.
Prendo al door 10 il bus per la subway A (si dice I); un negro con cui ho viaggiato sull’Icelandic si offre di accompagnarmi e nella sot- terranea una ex segretaria di Caltanisetta in pensione mi raccomanda di non uscire di sera e di tenere il borsino portasoldi nascosto sotto il golf.
Il negro, dopo avermi mostrato l’illuminata sagome dell’Empire State Building, mi accompagna al vicinissimo Sloane, e mi fa dare la chiave.
Entro così nel più piccolo buco del mondo, con lenzuola e bicchieri pulitissimi; decido di uscire in esplorazione e prendere l’acqua da bere nel refrigerator, e scopro fra lunghissimi corridoi mochettati le toilettes distinte delle ladies e dei men. Con sgomento vedo che le docce sono aperte; i rubinetti a scatto, le vaschette senza tappo, per cui ci si lava con una mano sola.
La porta del mio buco-camera si è chiusa a scatto alle mie spalle, lasciandomi con «mogadon» e il bicchier d’acqua. È necessario che mi riapra il negro della «security» non prima di un’inchiesta accurata che accerta il mio reale diritto a riprendere possesso della stanza.
Il viaggio
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