Mestieri
giornalistaLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
Repubblica CecaData di partenza
1953Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Prima tappa di avvicinamento verso Praga per Paola e Sergio, due ragazzi italiani, militanti del Pci, che nel 1953 vengono mandati a Praga per alimentare i flussi di contro-informazione dai paesi dell’area sovietica.
Nella cuccetta non dormimmo molto, anche se il viaggio non era avventuroso come i primi del dopoguerra. Eravamo emozionati ed anche preoccupati. Alla frontiera un qualsiasi poliziotto avrebbe potuto arrestarci e rispedirci a casa. Ma noi eravamo carichi di entusiasmo. Nipote e figlia di ferrovieri, avevo imparato presto l’amore per il viaggio. Viaggiare era per me un’emozione. Adoravo le stazioni e il loro odore, non mi dispiaceva quando dal finestrino entrava il fumo della locomotiva e ci sporcava il vestito. Col fumo entravano nello scompartimento anche minuscole particelle di carbone bruciato. Chiudevo il finestrino soltanto sotto le gallerie anche per non sentire più le proteste dei miei. Mi divertiva vedere nelle stazioni il via vai di gente con fagotti, valigie, bambini piagnucolanti. Mi piaceva sdraiarmi sulle poltrone di velluto rosso col poggiatesta inamidato e le scritte FF.SS. che erano anche sulle tendine color avana dei finestrini. Viaggiavamo sempre in P\ classe gratis e di notte prendevamo a noleggio dai facchini, un cuscino bianco per appoggiarvi la testa. Se il viaggio era di giorno, portavo sempre con me un libro, ma finivo regolarmente con la fronte premuta contro il vetro del finestrino per vedere il mondo che mi sfuggiva dal treno in corsa Invece quella notte, non mi interessava il viaggio, ma la meta. Tutt’e due ci sentivamo tesi come corde e speravamo solo che tutto finisse al più presto. Dopo sei ore entrammo nella galleria del Vernio. Fino a Bologna sapevo a memoria il percorso. Dopo la lunga galleria ce n’erano altre cinque. Il nonno diceva che la stazione di Bologna era un grande tronco ferroviario e non era di testa come quella di Roma e di Firenze. Erano passati solo dieci giorni da quando Edoardo D’Onofrio e Aldo Lampredi ci proposero di andare a lavorare a Praga. Ci sembrava di toccare il cielo con un dito, perché voleva dire, prima di tutto, aver trovato un lavoro con uno stipendio sicuro. Eravamo entusiasti all’idea di vivere in un paese socialista, lavorare per il PCI, per una giusta causa in attesa che anche in Italia arrivasse il socialismo. Sarebbe stato il nostro modo di fare politica che era diventata una parte importante della nostra vita. Durante alcuni incontri al quarto piano di Botteghe Oscure, avevamo ricevuto le istruzioni. E anche i soldi, perché noi non avevamo una lira. In treno saremmo arrivati fino a Vienna. Ci dissero anche in quale albergo scendere. A quel tempo la città era divisa in tante fette quanti erano gli alleati vincitori della seconda guerra mondiale. La divisione iniziava dal centro storico, il ring, una strada larga fatta a cerchio pieno di luci, sfavillante di negozi, ristoranti e alberghi. Noi dovevamo scendere nella zona sovietica, la meno luccicante. Quando il treno si fermò alla frontiera, salì prima un poliziotto italiano e dopo un po’ un austriaco. Noi restammo seduti senza parlare. Andò tutto bene. Arrivati a Vienna ci dirigemmo subito al posto di blocco sovietico. Mostrammo a un soldato i documenti che a Botteghe Oscure ci avevano dato. Ci fecero passare. Salimmo su un taxi, una macchina mai vista prima e in cattive condizioni e ci facemmo portare all’albergo che ci avevano detto, nella zona sovietica. Un po’ in francese, un po’ inglese, ma soprattutto a gesti, riuscimmo a farci capire. Non sapevamo una parola di tedesco se non achtung e verbieten imparati durante l’occupazione nazista. Quando finalmente entrammo in camera, io mi buttai sul letto e caddi in una crisi di riso da farmi venire le lacrime agli occhi e il mal di pancia. Ogni tanto mi tiravo su con le mani sullo stomaco dicendo: Ohi, ohi, basta, basta! Mi scendevano lacrime sulle guance. Sergio non riusciva a frenare la mia crisi. Finalmente mi ricomposi e dopo aver fatto una doccia per rinsavire, decidemmo di non disfare valigie. Saremmo ripartiti subito, pensavamo. Ce ne andammo in giro per quel pezzo di città che non ci piacque molto.
Ci presentammo al comando sovietico. Mentre un uomo grosso e alto guardava i nostri documenti scrutandoci con diffidenza, due soldati ci presero per un braccio e, con maniere sgarbate, ci chiusero in una stanza dove c’erano solamente due sedie e nient’altro. Noi ci eravamo profusi in grandi sorrisi, ma nessuno dei militari aveva in qualche modo corrisposto. Eppure avevamo dimostrato chiaramente di essere felici di vedere da vicino i soldati della gloriosa e vittoriosa Armata Sovietica, che portavano sul berretto una stella di metallo rossa con incisi la falce e il martello. Invece non ci accolsero come compagni, come pensavamo, né come amici. Fumavano strane sigarette con poco tabacco e grande bocchino di cartone. Cominciammo a pensare che D’Onofrio e Lampredi non ci avevano informato esattamente di come sarebbero andate le cose. I sovietici ci sembrarono molto sospettosi e non dimostravano alcun cenno di amicizia nei nostri confronti. Noi non riuscivamo a capire nulla di quello che dicevano e continuavamo a mostrare lettere e le nostre tessere d’iscrizione al PCI. Dopo due ore, l’uomo grosso e alto riaprì la porta e ci condusse in un’altra stanza. Un altro soldato con una decina di medaglie sul petto riuscì a farci capire che il lasciapassare l’avremmo avuto il giorno dopo. Come concordato, Sergio telefonò a Roma e informò della situazione, usando le parole convenute. Capimmo che saremmo dovuti restare a Vienna per alcuni giorni. Al nuovo appuntamento telefonico, avremmo saputo quando poter partire per Praga. Mi resi conto, improvvisamente, di essere entrata nella clandestinità. Non l’avevo messo in conto, ma non mi fece paura. Mi sentivo in vacanza, volevo godermi Vienna ed ero molto curiosa della nostra nuova vita. Non riuscivo ad immaginarmela. Quando ci diedero i nuovi documenti e il lasciapassare sovietico, potemmo girare per la città, passando da una zona all’altra. Quei giorni a Vienna furono stupendi. Facevamo i turisti. E dire che soltanto un mese prima per noi era impensabile vivere all’estero, in un albergo, spesati di tutto, mangiare tre volte al giorno. Visitammo musei, palazzi, chiese anche nelle vicinanze della città. Mangiavamo dove capitava scegliendo il meno peggio. Imparammo subito che bisognava mangiare prima gli spaghetti stracotti messi nel piatto come contorno e poi la carne che era sempre o troppo unta o troppo salata. Non riuscii a mandar giù l’insalata con lo zucchero. Richiamammo Botteghe Oscure e ritornammo al comando sovietico con le valigie. A ognuno di noi venne consegnata una busta verde con dentro altri documenti e i biglietti di viaggio. Non ci restituirono i nostri che avevamo consegnato. I sovietici furono rigidi e di poche parole. Tanto noi non capivamo nulla. Nessuno ci salutò. Forse erano contenti di essersi liberati di una bega per loro di nessun interesse. In taxi arrivammo in stazione. Dopo mezz’ ora salimmo sul treno per Praga. Era fatta!
Il viaggio
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