Mestieri
ingegnereLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
GermaniaData di partenza
1957Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Carlo Alberto Bettega, ingegnere impiegato in un’industria che produce bruciatori per il metano, viene mandato nel 1957 a Berlino Ovest in visita agli stabilimenti locali. Sarà un soggiorno di tre settimane, da trascorrere in compagnia della moglie. Fatto curioso: nel giorno in cui si imbarca a Malpensa, il primo satellite della storia lanciato nello spazio dai russi attraversa gli stessi cieli.
Nell’ottobre ’57 convolai a giuste nozze, trascorrendo poi alcuni giorni in luna di miele sulla Costa Azzurra (che era un po’ l’equivalente delle odierne Bahamas); ci godemmo un caldo sole fatto su misura per noi, e ci facemmo dei bagni memorabili. Già prima dell’evento la Direzione della Ditta mi aveva proposto di recarmi nell’ex capitale tedesca per un periodo di aggiornamento. Era stato concluso un accordo con uno studio tecnico di lassù per la costruzione di una particolare serie di caldaie a vapore: proprio quello sarebbe stato il campo che da allora avrei dovuto… coltivare. Sarei rimasto a Berlino per tre settimane circa lavorando al fianco dei progettisti locali, per poi effettuare un giro di visite agli impianti. Con gesto di squisita cortesia mi venne concesso di portare meco la neo-moglie, altrimenti destinata a rimanersene sola e sconsolata a piangere il marito lontano. Fu così che ai primi di novembre ci organizzammo e partimmo alla conquista di Berlino (ovest). La città era allora isolatissima dal mondo occidentale: vi si poteva accedere unicamente attraverso tre strade, praticamente camionali, e tre “corridoi” aerei. Noi utilizzammo quello che partiva da Francoforte, ove dovemmo pernottare non essendo possibile compiere l’intero tragitto in giornata. Oggi ci si arriva in due ore.
Antefatto curioso. Mentre ci trovavamo alla Malpensa (che era allora l’aeroporto internazionale di Milano) in attesa della partenza, ci capitò di assistere al passaggio sopra di noi del primo satellite artificiale, che inaugurava l’era spaziale. Si trattava dello Sputnik sovietico, lanciato da pochi giorni: si stagliava brillantissimo, perché illuminato dal sole, contro il cielo scuro dopo il tramonto. Ricordo ancora i minuti precedenti l’atterraggio a Berlino, che ci tennero con il fiato sospeso: stavamo sorvolando la città a quota paurosamente bassa, tanto da farci temere che da un momento all’altro avremmo inciampato in qualche comignolo. Ad atterraggio (felicemente) compiuto scoprimmo la ragione dello strano comportamento del pilota: l’aeroporto era, ed è, situato nel bel mezzo dell’abitato. Molto comodo per i passeggeri; forse un po’ meno per i residenti della zona. Appena fuori dall’aerostazione ci corse l’occhio a uno strano monumento di chiara impronta post-bellica: uno spezzone di arco in cemento armato che si protendeva verso il cielo. Esso simboleggiava il “ponte aereo” che per alcuni mesi aveva assicurato il rifornimento dall’ovest della città allorché i sovietici avevano bloccato tutti i trasporti terrestri. L’arco spezzato voleva ricordare i numerosi piloti caduti nel corso dell’operazione. Trovammo la città ben ricostruita, anche se rimanevano vistosi i segni della tragedia bellica. Prima fra tutte la famosa chiesa dal nome pressoché impronunziabile, volutamente lasciata com’era, a futura memoria. Osservando lo scuro campanile smozzicato che si stagliava contro il cielo si aveva davvero l’impressione che le bombe e le granate avessero appena ultimato il loro distruttivo compito. Negli anni successivi il monumento-relitto è stato circondato da alti edifici che sembrano volerlo affogare in un mare di pareti vetrate; ne offuscano la visione e forse anche il significato. Fummo ricevuti con tutti gli onori (salvo quelli militari) e accompagnati alla nostra dimora: un albergo situato nei pressi del centralissimo viale lungo un chilometro e largo 80 metri che costituiva il luogo di incontro dei berlinesi “bene”; in fondo ad esso appariva la già citata chiesa. Era fiancheggiato da lussuose vetrine e da caffè con tavolini disposti sui larghissimi marciapiedi. Per proteggere gli avventori dal fresco semi-invernale erano state strategicamente piazzate tettoie e vetrate posticce e persino qualche stufetta elettrica: si aveva così l’illusione di stare all’aperto pur rimanendo al chiuso e al caldo.
Il giorno successivo a quello dell’insediamento io intrapresi la mia routine lavorativa. Partivo il mattino in autobus, al buio, e dopo mezz’ora circa raggiungevo gli uffici, sistemati in una simpatica villetta, con tanto di giardino. Il silenzio era totale, a parte il cinguettio dei passeri: non si aveva affatto la sensazione di trovarsi in città e tanto-meno in ufficio. Era la caratteristica della zona, tutta a villini immersi nel verde. Passavo la giornata a fianco di uno dei tecnici facendo calcoli e progetti, ed esaminando quelli che i vari costruttori sottoponevano alla Casa Madre per l’approvazione.
Il viaggio
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