Paesi di emigrazione
RussiaData di partenza
2001Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Fabrizio Bettini ha 28 anni quando arriva a Pjatigorsk, in Russia, ai confini con la Cecenia. È il 2001 e da due anni il territorio è attraversato per la seconda volta in meno di un decennio dalla guerra. Fabrizio è operativo con la missione Operazione Colomba, un corpo civile e nonviolento di pace di ispirazione cattolica. Al loro arrivo, come spiega Fabrizio, i volontari faticano capire come rendersi utili alla popolazione.
Piatigorsk (febbraio marzo 01)
Finalmente anch’io sono partito da Volgograd alla volta di Piatigorsk. Questa volta la salute è buona e supportato dai racconti di Alex e di Andrea sul precedente viaggio le mie aspettative personali sono tante. Voglio illudermi che troveremo uno spiraglio per metterci al fianco della gente e porre le basi per una futura presenza. L’emozione per il primo viaggio attraverso la grande Russia su un grande e maestoso treno é tanta. I treni e i trasporti in genere funzionano bene qui. Saliamo sul treno alla volta di Piatigorsk nel nostro scompartimento c’è anche un ragazzo dall’aspetto simpatico anche se di poche parole. Forse é un giovane soldato di leva. Mi attacco al finestrino finché non fa buio. Mi passa davanti un mondo fatto di condomini di stile socialista, piccole case in legno, grandi fabbriche, il canale Volga-Don costruito dai prigionieri delle purghe staliniane, piccole stazioni, donne, che sedute sotto una pianta, si godono il primo sole primaverile, giovani che fanno tiro a segno con dei sassi su due vecchi secchi, un ragazzo che nella solitudine del suo cortile fa volteggiare una mazza di legno, piccoli pali della luce in legno, grandi tralicci di metallo, vagoni merci, vecchie locomotive in disuso, la steppa, macchine, trattori, camion, vecchie stalle collettive, antenne per chissà quale scopo piantate in paesini con le case basse, una centrale atomica, una cittadina in lontananza etc. Arriviamo a Piatigorsk verso mezzogiorno dopo circa venti ore di treno. I treni russi con la loro maestosità’ e grandezza si inseriscono bene nella grandezza del territorio. A Piatigorsk incontriamo Olga. Lei a ventiquattro anni, dopo essere scappata sei anni fa dalla Cecenia, ha fondato e dirige un associazione che fornisce aiuto legale ai profughi. L’aiuto legale é fondamentale da queste parti dove la burocrazia é complicatissima. Lei ci aveva gia’ conosciuti durante il primo viaggio da queste parti, le abbiamo chiesto di passare un po di tempo con i profughi per poter capire meglio la situazione e capire come noi ci possiamo impegnare. Detto fatto, elci troviamo in una specie di campo profughi. In una baracca prefabbricata ci sono circa quaranta persone in maggioranza adulti ma non mancano anche i bambini due dei quali molto piccoli. La situazione di queste persone é particolare. Otto anni fa, assunti da una ditta di costruzioni, si sono spostati da Grozny alla volta di Piatigorsk con la prospettiva di lavorare e in breve tempo migliorare la loro situazione abitativa. Poi la prima guerra nel ’94 la ditta va in bancarotta il presidente fugge con tutti i soldi alla volta di Mosca. Queste persone si trovano incastrate dalle definizioni. Sono lavoratori, non hanno diritto agli aiuti che ricevono i profughi, ma la’ in Cecenia anche le loro case sono state bruciate. Sono russi e dopo la fine della prima guerra hanno paura a tornare la’ dove un tempo, come dicono loro, vivevano in armonia e in accordo con i ceceni. Una sola donna con la madre é scappata recentemente. Alla domanda di come abbia vissuto la pace tra le due guerre (tra il ’96 e il ‘99) lei risponde: “con paura”. Racconta, come tante volte abbiamo sentito da altri in altri posti, di essere scappata con solo quello che indossava e di aver lasciato a Grozny tutto quello costruito con il lavoro di una vita. Anche se l’approccio con questa gente e diverso, più difficile, rispetto alle mie esperienze precedenti sento il calore del contatto il fatto che finalmente siamo in mezzo alla gente che sta soffrendo per una guerra che a ogni nostro tentativo di entrarci dentro ci respinge lontani. Non sappiamo ancora cosa potremmo fare per questa gente; siamo convinti che lo starci in mezzo, il favorire il dialogo, permettere a queste persone di sfogarsi sia una cosa concreta, evidente, ma da queste parti non possiamo essere quello che siamo stati nei Balcani o in Messico. Qui, forse, dobbiamo fare qualcosa di “concreto” per avere la scusa di vivere in mezzo a questa gente.
Vediamo che le donne lavano i panni a mano e pensiamo ad un’idea quasi stupida che, pero’, potrebbe farci entrare in rapporto con i profughi: comprare una lavatrice e lavare i panni per loro. Parliamo con Olga la quale ancora non capisce perché vogliamo tanto andare a stare in mezzo alla gente e continua a parlarci di aiuti materiali. lo penso che vivendo in mezzo ai poveri cercando di vivere come loro vivono la lettura dei loro bisogni sara’ più chiara e l’aiuto che ne deriva, concreto o no, sara più mirato. Questa mia convinzione cresciuta con la mia esperienza balcanica fatta di condivisione e di osservazione delle grandi macchine umanitarie da queste parti sembra di difficile applicazione. Forse per fare quello per cui siamo venuti fin qui dobbiamo metterci una maschera, almeno all’inizio, o forse dobbiamo andare a testa bassa, passo dopo passo, con umiltà’ e capacita’ di recepire una mentalità’ che è diametralmente opposta alla nostra. È duro questo cammino! Di tre giorni passati in quella baracca mi porto a casa i sorrisi di queste persone all’udire il nostro russo ancora stentato, la grande ospitalità’ che ci ha fatto sentire in imbarazzo. Come sempre i volti e le voci di queste persone si scolpiscono nella memoria ma questa volta, come mi era accaduto in Inguscezia, la frustrazione è maggiore. Non riusciamo a trovare il modo di aiutare e di stare con questa gente.
Venerdì’ alle sei siamo di nuovo sul treno alla volta di Volgograd. Dobbiamo tornare perché dobbiamo sbrigare delle formalità’ burocratiche che ci permetteranno di allungare ii nostro visto ad un anno ma allo stesso tempo ci costringe a chiedere il permesso per tornare in Italia un mese. I nostri passaporti saranno per dieci giorni in qualche ufficio di Volgograd e qui senza documenti non si fa molto. Passeremo gli ultimi dieci giorni a Volgograd prima di tornare in Italia studiando il russo e cercando di chiarirci fra di noi sul valore di questi due viaggi fatti a sud. Il treno del ritorno ritrasmette le immagini dell’andata: una cittadina in lontananza, una centrale atomica, antenne per chissà quale scopo piantate in paesini con le case basse, vecchie stalle collettive, camion, trattori, macchine, vecchie locomotive in disuso, la steppa, vagoni merci, grandi tralicci di metallo, piccoli pali della luce in legno, un ragazzo che nella solitudine del suo cortile fa volteggiare una mazza di legno, giovani che fanno tiro a segno con dei sassi su due vecchi secchi, donne, che sedute sotto una pianta, si godono il primo sole primaverile, piccole stazioni, il canale Volga-Don costruito dai prigionieri delle purghe staliniane, grandi fabbriche, piccole case in legno, condomini di stile socialista, etc. Cullato dal treno leggo di un altro treno che ha trasportato, cinquantacinque anni fa, molto meno comodamente Josef Mayr-Nusser ed altri deportati al campo di Dachau. Josef Mayr-Nusser era un sud tirolese che alla verso la fine della seconda guerra mondiale ha rifiutato il giuramento nelle s.s. e per questo condannato al campo di concentramento. Mi sorprende e mi stimola la figura di questo uomo semplice che per fede e per testimonianza compie un estremo sacrificio. Forse dobbiamo credere di più e giocarci di più se vogliamo incominciare a vivere con le vittime della guerra in Caucaso.
Il viaggio
Paesi di emigrazione
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2001Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Gli altri racconti di Fabrizio Bettini
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