Mestieri
scrittoreLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
Francia, ArgentinaData di partenza
1922Periodo storico
Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)Prosegue il soggiorno dello scrittore toscano Virgilio Martini a Parigi. Negli anni Venti del Novecento, la “Ville Lumière” brulica di italiani.
Parigi giugno 1925.
– Pardon Monsiéur le boulevard Voltaire, s’il vous plaît?
– Traversez cette place, pius… ma lei l’è italiano?
Succede spesso. Si chiede un’informazione, e rispondono in francese, fino a un certo punto, poi arriva la domanda. Appena detto di si, che sono italiano, quello tira fuori un accento fiorentino o romanesco o settentrionale o meridionale. A Parigi vivono (viviamo, ora) 150.000 italiani: uno ogni venti persone.
Ci sono quartieri dove siamo quasi più noi dei francesi: per esempio, l’undicesimo arrondissement – fra la République, la Bastille, la Nation e il Père Lachaise – è pieno di operai italiani. È interessante ascoltarli. Ne ho uditi parecchi, fiorentini, che parlano francese buttando là mezze parole e parole intere in vernacolo, e parlano italiano mescolandovi parole francesi. Quasi tutti son venuti a Parigi senza saper nulla di francese, e sapendo l’italiano come può saperlo chi ha fatto la terza elementare. Da principio era un affar serio, per comprare un chilo di pane o un pennello da barba, per andare in autobus o in métro. A poco a poco, mesi o anni, sono arrivati a capire e farsi capire.
Ma, vivendo in rioni popolari, e frequentando compatriotti di modesta condizione, non son riusciti a migliorare l’italiano né a imparar bene il francese. Così si son creata una lingua particolare, bastarda, mista di fiorentino e di argot. Riportare il lavoro è, per loro, andare a livrare; salire all’ultimo piano è monter a i’ dernier etasge; il si e l’oui sono usati indifferentemente. Li sentite far discorsi di questo genere:
-‘Un c’è da etonnarsi se capita di veder per la Rue due che si danno un bacio. A Parigi c’è più libertà; le demuaselle le vanno sole all’una di notte, ma ‘un vol mica dire che se le vogliono le ‘un possano essere perbene! È che le vogliono di rado…
C’è quella d’i’ truasiemme etasge che l’ha fatto all’amore con uno per sett’anni e poi la l’ha piantato perché lui si voleva amusare, ma della Merì, nulla,’un ne voleva sapere…
I figli, nati qui o anche nati in Italia ma portati da piccini a Parigi, parlan meglio e più volentieri il francese che in l’italiano. Vanno alle scuole francesi, e cominciano a crederee che l’italiano sia una lingua inferiore. Cosi, in parecchie famiglie, tra fratello e sorella s’intendono in francese, tra figli e genitori in italiano. E, se si tratta di toscani, i grandi mangiano le ‘c’ mentre i piccoli arrotano le ‘r’.
Non è raro il caso del ragazzo che rimbecca il babbo o la mamma per il loro italiano; ma allora arriva uno scapaccione internazionale che accomoda ogni questione linguistica.
Ci sono anche figli che rimangono tenacemente attaccati alla lingua materna e paterna. Ho conosciuto un giovanotto, nato a Parigi e mai uscito da Parigi, che si mangia più c che non mangerebbe panini ripieni un poveraccio digiuno da quindici giorni. Ma i padri e le madri – gli immigrati – hanno l’Italia nel sangue. È difficilissimo o trovarne uno che abbia preso la cittadinanza francese. Qua da un mese, da un anno, da vent’anni, lavorano, guadagnano, vivono con sobrietà – e risparmiano aspettando il momento di tornare in Italia. Stanno in Francia perché qua l’operaio guadagna meglio che in Italia; generalmente amano questa grande Parigi anche se un po’ li stordisce, ma sognano la piccola città o la borgata tranquilla che li vide nascere. È là che vogliono morire.
Il viaggio
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