Paesi di emigrazione
Alaska (Stati Uniti d'America)Data di partenza
1990Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)La presenza di altri italiani in Alaska, lungo il percorso che sta facendo insieme a un amico, urta non poco la sensibilità di Martinelli, particolarmente a disagio di fronte a certi comportamenti.
Anche a Juneau piove. Dopo un’ora di bus scendiamo in centro, vicinissimi all’ostello. La città è molto piccola, e quasi spinta in mare dalla montagna che incombe sulle vie del centro. Costruire in salita è possibile, ma solo fino a una certa altezza. Poi la salita diventa ripidissima, dominio di alberi e aquile, e le strade lasciano posto al bosco. L’ostello è proprio al confine tra città e montagna, in cima ad una salita, ed è ancora chiuso: aprirà alle 5 del pomeriggio. Il tempo di lasciare i bagagli, scendere in città per mangiare qualcosa di caldo e fare un salto all’ufficio informazioni per avere le idee chiare sul da farsi, cioè capire se lo stop di quattro giorni, prima di proseguire per il nord, è un tempo sufficiente a fare tutto ciò che ci interessa. Sì, è sufficiente. Anche troppo, forse. La volontaria In pensione di turno oggi all’information office ci parla di un concerto d’organo e di una mostra di aracnidi, prima di capire esattamente ciò che le abbiamo chiesto. Intorno a Juneau ci sono moltissimi trail, e un ghiacciaio che tutti dicono molto interessante, ma al di là di questo non c’è altro.
Alle 5 all’ostello c’è una lunga coda davanti all’ingresso, tutta gente che aspetta di essere registrata. E c’è anche un gruppo di italiani, in mezzo ai quali capito a dormire. E subito scatta un meccanismo di autodifesa che non riesco a controllare. Mi chiedo perché pure in capo al mondo, o comunque . lontanissimo da casa, possa fare incontri di cui avrei fatto volentieri a meno. Durante l’attesa per la registrazione ìo e Marco ignoriamo totalmente i connazionali, come in un tacito accordo, convinti che se al loro posto ci fossero stati americani o tedeschi o giapponesi ci saremmo messi a chiacchierare senza problemi. Invece affondiamo la testa nelle nostre mappe e studiamo il da farsi per l’indomani. Ma è impossibile concentrarsi, tanta è la confusione e la mancanza di disciplina nella fila. A quanto pare, abbiamo a che fare con un gruppo eterogeneo. Vengono da tutta Italia e sono 14. La capogruppo è romana, ed è l’unica che parla inglese. O meglio una lingua che sembra inglese, ma storpiata da un’accentazione trasteverina quasi dialettale, quella cadenza pigra e irritante che sembrerebbe impossibile trasportare in un idioma diverso dal romanesco. Gli altri si rivolgono a lei per un aiuto, e lei, con boriosa sufficienza, traduce in modo approssimativo le loro richieste.
Devo sembrare proprio un orso, perché in bagno ci guardiamo tutti in cagnesco, mentre aspetto il mio turno per fare la doccia, scavalcato puntualmente da un connazionale che salta la fila dal momento che un amico gli ha tenuto la doccia occupata fino al suo arrivo.
Il viaggio
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