Mestieri
pittrice, insegnanteLivello di scolarizzazione
Accademia delle Belle ArtiPaesi di emigrazione
SomaliaData di partenza
1960Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)L’impatto con Mogadiscio e con il nuovo contesto di vita, non è semplice per Maria Stuarda Varetti, giunta in Somalia nel 1960, con una gravidanza in stato avanzato.
Quasi senza rendermene conto, fui presa, trasportata, condotta a casa di mia cognata che mi avrebbe ospitato per tutto il tempo che avessi voluto, perché la famiglia desiderava che rimanessi a Mogadiscio.
Così arrivai alla loro casa che si trovava nella via più importante della città, che era anche la più bella, quella che iniziava con il Consolato e terminava con l’Ambasciata italiana. I parenti abitavano il una baracca di legno, un bungalow. Quel piccolo bungalow aveva un ingresso, poi un corridoio, su un lato del quale si aprivano tutte le stanze, mentre sull’altro c’era un cortiletto con un bagno. Il tutto in condizioni primitive.
Mi sarei accorta in seguito che tutta la Somalia era in tali condizioni e che nelle case vi era solo lo stretto indispensabile per vivere.
E in ambienti simili vivevano gli Europei, come alcuni Somali privilegiati o gli orientali. L’avrei scoperto piano piano.
Illusioni non me ne ero fatte, né mio marito mi aveva minimamente mentito su quanto mi aspettava dalla mia scelta di una vita con lui.
Avevo passato notti intere ad immaginare la capanna che forse mi avrebbe accolto, cercando, con la mente, di sistemarla ed arredarla in modo tale da renderla confortevole, ed in quei miei inquieti pensieri avevo deciso che avrei coperto tutte le pareti con stuoie di paglia, che stranamente – l’ho notato dopo – erano come quelle che realmente si confezionavano sul luogo. Ero preparata al peggio con grande determinazione, perché la scelta era stata cosciente e difficilissimo sarebbe stato tornare indietro, ma mi resi conto che ogni volta che mi trovavo davanti la realtà non potevo sottrarmi allo sgomento. Sgomento che consumavo in solitudine e che cercavo di trattenere nel più profondo di me, fingendo spesso a me stessa di non averne coscienza.
Entrare in quella casa, la prima che visitavo in quel nuovo paese, non calmò le mie inquietudini, anzi le rinnovò. Era diversa da quelle in cui avevo vissuto sino ad allora e mi mortificava.
In essa vivevano la famiglia di mia cognata e la famiglia dello zio di mio marito Abdullahi, un uomo dolce, sempre ragionevole e molto affettuoso, a quel tempo poco più che trentenne. Alla sua volontà mio marito doveva i suoi studi.
Gli abitanti erano in molti per la capienza della casa e a loro si aggiungevano non solo fratelli e sorelle che per periodi più o meno lunghi, oppure fissi, vi soggiornavano, ma si aggiungevano gli ospiti che quotidianamente si presentavano, sì che ogni angolo era sempre utilizzato al massimo per sopperire alle esigenze primarie di tutta quella gente.
Alla capanna ero pronta, ma a questo no, non volli neppure prendere in considerazione la possibilità che forse avrei dovuto dividere anche la capanna con altri in un contatto continuo che toglieva qualsiasi volontà di privato e personale. Quella gente sconosciuta, quasi sempre mal vestita, che si muoveva con ritmi e modi a me assolutamente estranei, dovevo imparare a viverla.
Avevo alcune mediazioni in quell’impresa difficoltosa, anzitutto l’amore che portavo a mio marito, poi una curiosità che sempre mi ha spinto con candore verso tutto, ed infine il senso dell’avventura maturato in un’infanzia di letture, non esclusi i fumetti di Tarzan.
Il viaggio
Mestieri
pittrice, insegnanteLivello di scolarizzazione
Accademia delle Belle ArtiPaesi di emigrazione
SomaliaData di partenza
1960Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Gli altri racconti di Maria Stuarda Varetti
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