Mestieri
medicoLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
RuandaData di partenza
1994Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Gaddo Flego è in Ruanda, nel 1994, mentre è in corso il genocidio.
Nyamata sembra essere stata una bella cittadina, punteggiata da numerosi edifici pubblici e religiosi. L’orfanotrofio dove stiamo noi è un po’ in collina, per scendere verso il paese si attraversa un bel prato verde, e si arriva alla chiesa, una vasta costruzione di mattoni rossi con un tetto di lamiera ondulata. La piazza davanti è di terra battuta, ci sono vestiti impolverati, avanzi di falò e spazzatura di vario genere: in mezzo c’è la carcassa di una cassaforte grande come un comodino, aperta chissà come, sventrata. Il saccheggio e l’avidità sono sicuramente aspetti importanti di quello che è avvenuto, ovunque sembra sia passata una furia che un po’ distrugge, un po’ cerca quello che si può trovare di qualche valore. Sembra che il futuro non sia stato tenuto in alcuna considerazione, né l’idea di conservare qualcosa che non fosse immediatamente consumabile o asportabile. Un po’ più a monte c’è un altro edificio, credo che fosse un convento di preti. Una recinzione costeggia la strada che separa questa costruzione dalla chiesa: la rete è coricata sulla strada, i paletti metallici ricurvi come erba bagnata. La folla che era rifugiata lì deve essere fuggita nel terrore verso la chiesa, travolgendo tutti gli ostacoli.
Mi hanno già raccontato che in quella chiesa, dove gli innocenti si erano accalcati cercando scampo sotto gli occhi del Signore, sono state uccise migliaia di persone (forse 10.000). Mi avvicino all’entrata con grande timore, quello che abbiamo sempre: la paura che dietro quella porta, in quella stanza o in quel campo ci siano ancora corpi scempiati. Ma la chiesa è vuota: sono rimasti dei vestiti, il rosso ruggine del sangue, un colore diverso, più scuro, delle pareti fino ad altezza d’uomo per tutto il perimetro. La luce disegna dei raggi sottili che passano da piccoli fori sul tetto di lamiera. La gente qui è stata finita all’arma bianca e con le granate. Qualcuno, creduto morto, è sopravvissuto: alcuni sono i pazienti della scuola-ospedale, quelli amputati o con il cranio spaccato.
Il crocefisso è appoggiato a un muro. Chi ha ripulito il posto lo ha lasciato.
Nella nostra ricerca di una casa e di un ufficio ci aggiriamo tra fosse comuni: sono solo enormi cumuli di terra, di larghezza costante e lunghi come fossero l’emergenza di gallerie di grandi talpe, alti più di una persona. Costringono a strani percorsi, e non è immediato pensare che a questi volumi di terra emersi ne corrispondono altrettanti di cadaveri sepolti, di materia umana indistinta celata alla vista.
Iniziamo a guardarci intorno: la vita a Nyamata sembra procedere in condizioni di relativa stabilità, i profughi sono circa 8000 e il loro numero non sembra aumentare molto, ci sono quelli che arrivano dalle paludi, spesso malati di dissenteria bacillare e malaria, ci sono i feriti che lentamente guariscono. Molti di essi hanno mutilazioni o sfregi che li segneranno per tutta la vita. Nyamata è un grande campo profughi assolutamente atipico: le persone sfollate hanno tutte trovato riparo nelle case, lasciate vuote dagli abitanti originari, massacrati.
Il viaggio
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