Mestieri
commessoLivello di scolarizzazione
licenza elementarePaesi di emigrazione
EtiopiaData di partenza
1936Periodo storico
Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)Febbraio 1936, l’Italia è in guerra con l’Impero d’Etiopia, il soldato del genio radiotelegrafisti Olimpio Pasquinelli parte da Napoli alla volta dell’Africa Orientale per prendere parte al conflitto.
1° febbraio 1936, Roma
Dalla caserma Nomentana, ove siamo concentrati circa dai quattro ai cinquemila uomini, tutti pronti per l’imbarco diretti in Africa Orientale, il mio battaglione di Genio Telegrafisti e altri battaglioni delle varie specialità del “Genio”, usciamo da detta caserma circa le quindici, e tutti bene inquadrati ed equipaggiati percorriamo le vie della città in mezzo a due fitte ali di popolo che festanti ci accompagna fino alla stazione, alle 16 prendiamo un treno speciale che ci porta a fortissima velocità e senza una fermata direttamente a Napoli, ove arriviamo alle ore venti. Qui passiamo la notte accantonati in un diroccato quanto sporco edificio. Appena arrivati posiamo le nostre cose e vorremmo uscire ma non ce lo permettono i nostri superiori, perché dicono che da un momento all’altro si può partire, ma noi chi in un modo chi in un altro quasi tutti sgattaioliamo fuori dall’ accantonamento e ci dirigiamo verso la città. Qui ci si sparpaglia e ognuno, o a piccoli gruppi, se ne va per i fatti suoi. Io insieme ad altri tre o quattro compagni d’armi ci fermiamo in una trattoria perché a dirla franca sentivamo appetito. Usciti abbiamo gironzolato un poco e poi siamo ritornati all’accantonamento.
2 febbraio 1936, Napoli
Stamane, alzatici dalla paglia ove avevamo passato la notte e fatta, come si dice, un po’ di “toletta”, ci danno mezza scatoletta di carne a testa e una pagnotta che deve bastarci fino a sera, alle undici lasciamo l’accantonamento; qui non c’è tanto popolo come a Roma che ci saluta, però in compenso in tutte le vie che attraversiamo, anche le più centrali, è uno sventolio di panni lavati che ci accompagnano e ci salutano fino al porto come tante bandiere, alle tredici prendiamo imbarco su un grande piroscafo, il Liguria; appena a bordo, scendiamo sotto coperta per prendere possesso della cuccetta che ci destinano e che sarà il nostro letto per tutto il viaggio. Non so se sia la stessa cosa su tutti i piroscafi, ma appena sotto coperta ho sentito un forte odore come di latte che si versi sul fuoco, ma così acuto da rendersi fastidioso; però anche a questo basta farci il naso ché dopo se anche si sente non da più fastidio. Fino alle diciotto, ora in cui lasceremo il porto, passiamo il tempo a curiosare di qua e di là, volendo fare conoscenza con la nostra nave che dovrà ospitarci per tanti giorni. Sul ponte, verso prua, è installata una campana, che non so quali funzioni avesse, ma portava in rilievo il nome di Melita. Fra le tante voci che circolano tra soldati c’è pure questa che forse è attendibile, cioè che la nave prima che fosse nostra e che portasse il nome di Liguria, fosse inglese e che Melita è il nome della nave stessa; posso aggiungere che è una bellissima nave benché trasformata per il trasporto delle truppe, ha due ponti e le passeggiate in parte coperte, che è attrezzata e divisa molto bene, più di quanto si possa immaginare, è da notare che le passeggiate pure sono piene, come le stive, di ogni sorta di materiali. Sottocoperta, bene inteso, non ci sono più le cabine come le immaginiamo tutti ma passando per lunghi corridoi si vede affacciarsi su di esso le porte che mettevano in ampie cabine, dove c’è posto per cinquanta – cento e le più grandi anche per duecento persone; vi sono sistemate molte cuccette, però comodissime e fornite di materasso e cuscino ricoperti di tele bianche; la coperta o lenzuola non ci vogliono perché dentro fa molto caldo, tanto più poi che siamo diretti verso paesi caldi. Come detto sopra, alle diciotto lasciamo la banchina, come si può immaginare alla partenza tutti siamo in coperta per vedere un’ultima volta quella terra che siamo sicuri di lasciare ma che quando e come e chissà se tutti potevamo rivedere. Intanto la terra si allontana sempre più fino a scomparire; dopo un’ora di navigazione la nave ballava il saltarello, ma senza musica, o per dire meglio con la musica infernale che fa il mare quando è burrascoso. Molti di noi, anzi per la maggior parte, è la prima volta che ci si accinge a fare una traversata, perciò è facile capire: in poco tempo i ponti della nave si sono fatti deserti, tutti si sono gettati nella cuccetta per sentire meno il rullio e il beccheggio della nave; ripeto: il mare era violentissimo e a tutti indistintamente ci è venuto il mal di mare. Io pure, che sono stato uno degli ultimi a sentirmi male alla fine ho fatto come gli altri. La prima notte credo che nessuno abbia chiuso occhio, da parte mia tutta la notte non ho fatto altro che sentire le onde infrangersi violentemente contro lo scafo della nave, da dentro poi l’effetto è centuplicato, fra i colpi di mare contro i fianchi e lo sprofondarsi della nave quando si produce dei vuoti sotto di essa si sente dei colpi tali che sembra debba tutto frantumarsi. Vi dirò che tutta la notte ho pensato come può una nave resistere a tanta violenza, ho l’impressione che da un momento all’altro questa debba spaccarsi in due e che tutto finisca ai pesci; invece ho finito verso l’alba per addormentarmi e al mattino si danzava ancora. Causa il mal di mare ho perso l’appetito per tre o quattro giorni, molti poveretti sono stati male tutto il viaggio.
Il viaggio
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EtiopiaData di partenza
1936Periodo storico
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