La piaga delle cavallette

Chi non ricorda, amici di un tempo, gli sterminati vigneti di Fondk Allus, di Gurgi e di Suani, di Gargaresc e di Castel Benito? Un altro spettacolo anche quello!

Chi legge dirà: – Ma allora, laggiù, era tutto uno spettacolo?

Per noi, si. Vivevamo di ricordi lontani ormai annebbiati dal tempo; avevano ancora negli occhi la steppa sterile come l’avevamo trovata e se volevamo rivederne un campione per constatare il miracolo, bastava andar fuori delle concessioni. […]

Il poco che ho scritto del molto che si poteva scrivere sulla fatica le amarezze e le soddisfazioni dei coloni italiani, potrebbe sembrare a chi non sa, la fissazione professionale di un agricoltore mezzo matto e la tardiva georgica di un Virgilio da strapazzo. […]

Ma qualche volta faceva scuro e dal cielo, invece della pioggia, pioveva il disastro.

Quell’anno, e poi altri ancora, una nuvola strana apparve nell’ostinato sereno: una nuvola scura, come un cirro vagabondo, che avvicinandosi si addensò come l’occhio nero di un temporale in formazione: sembrava la fumata alta di un incendio invisibile che si espandesse all’improvviso, gonfiata dal vento.

Nelle oasi, come per una strana fantasia, gli arabi si misero a tempestare di colpi le lamiere e i bidoni, accesero i fuochi, pregarono Allah, ma le cavallette, imperterrite, arrivarono lo stesso.

Incuranti del fracasso e del fumo, goffe e affamate nevicarono sui campi e sulle piantagioni. Fece sera a mezzogiorno e la via lattea di ali si trasformò ben presto in una spessa coltre di bestie avide che pareva volessero segare anche il legno.