Mestieri
informaticoLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
YemenData di partenza
1994Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)As Saddha è un piccolo paese nelle campagne dello Yemen. È il luogo in cui Mario Speranza, cooperante di origine salernitana, presta servizio da qualche mese per una Ong.
L’isolamento. E’ questa la sensazione che ho provato la prima volta che ho raggiunto questo posto. Mi sono sentito come se fossi arrivato in un “cul de sac”, un angolo sconosciuto al mondo, o tutt’al più, per esso, una località su di una cartina geografica. D’altra parte, ho poi constatato con il tempo, come molti degli abitanti di questa valle, sapessero del mondo e si ponessero nei suoi confronti con lo stesso disinteresse.
A differenza delle case di Sana’a, che hanno il primo piano in pietra e i restanti in mattone, le case di As Saddha sono interamente in pietra, e gli ornamenti più modesti. Grazie a questa peculiarità, il villaggio si confonde con le rocce delle alture circostanti ed appare, con le case ammassate, come un presepe ai piedi delle montagne. Avvicinandosi come con uno zoom, l’immagine oleografica comincia ad assumere i contorni duri di una realtà difficile: nelle strade piene di fango, di liquami fuoriusciti dalle fognature perennemente rotte, e di bambini cenciosi e scalzi, diventa qui evidente, più che a Sana’a, come lo Yemen faccia parte a pieno titolo dei paesi del terzo mondo, posizionandosi, tristemente, al 151° posto nelle statistiche dell’UNDP relative allo sviluppo umano. L’infanzia, tra le fasce della popolazione, è quella più colpita da questa condizione di sottosviluppo e di povertà.
La mia casa si trova a circa un chilometro dal centro del villaggio. La costruzione, ricavata recentemente con blocchi di cemento, è anonima e brutta, e se non ci fossero le kammarie a caratterizzarla, non la si distinguerebbe da quelle abusive costruite nel sud d’Italia. In compenso però, una grande terrazza in cemento grezzo, che fa da tetto al fabbricato, ci offre uno spazio ideale per il relax. Quassù, una piccola cucina, rappresenta la nostra zona giorno, e fa sì che la colazione, nella luce splendente del mattino, rinnovi la consapevolezza di vivere in un luogo straordinario. La vista tutto intorno, è uno scenario di montagne, campi di sorgo e di qat, piante di fichi d’india ovunque, e sulle sponde del torrente, una distesa di Belle di notte. I rilievi che sormontano la valle sono alti, e i dati dell’ultimo censimento “certificano” che nel Wadi Bana’a vivono circa 300.000 persone, disseminate in una miriade di villaggi abbarbicati anche sulle cime più impervie. Vivono di allevamento, agricoltura, e soprattutto grazie alle rimesse dei parenti emigrati nei paesi ricchi del golfo Persico. Il continuo andirivieni sotto casa, di uomini e in alcuni casi di ragazzini, armati di Kalasnikov, mi rende inquieto al pensiero che presto mi raggiungeranno le “mie donne”, e mi interrogo sulla nostra futura vita familiare e sociale in As Saddha. Le strade sterrate, sono polverose con la siccità, o piene di fango con le piogge, inoltre, il transito nella valle richiede spesso l’attraversamento del wadi; i trasporti quindi, sono assai lenti e problematici, e lo sanno bene i malati, o le donne in procinto di partorire, che devono sottoporsi a trasferimenti massacranti, il alcuni casi troppo lunghi, e che spesso risultano fatali. L’ospedale è proprio in fronte alla nostra abitazione, con la sua piccola moschea che scandisce il trascorrere delle nostre giornate. Tutto intorno ci sono diverse case e proprio in fronte, una serie di farmacie, che spesso vendono i farmaci sottratti all’ospedale, con la complicità di qualche dipendente.
Ogni volta che attraversiamo As Saddha alla guida del fuoristrada del progetto, il piccolo Ali si arrampica pericolosamente sul paraurti posteriore della nostra auto facendosi trasportare, fino a che, alzando il tono dei rimproveri, non riusciamo a farlo scendere e, a quel punto, si accontenta di correrci dietro di gran Iena, per dimostrarci quanto è veloce. E’ un vero monello, ed è sempre fuori casa. Può capitare che per alcuni giorni non si abbiano sue notizie, a dispetto dei suoi otto anni di età. Tra fratelli e sorelle sono circa una decina di figli e vivono col padre che è un uomo irresponsabile e violento mentre la madre, si racconta che sia scappata facendo perdere le proprie tracce. Insieme a sua sorella Jamila, si intrufolano spesso nella nostra abitazione, rimediando così un pasto caldo e più di ogni altra cosa, la possibilità di isolarsi per qualche ora in una realtà che probabilmente per loro è piuttosto una “fuga dalla realtà”. La piccola Virginia e contenta di averli intorno, e risponde ai lori richiami: “Firginia !”, (la lettera “v” non è presente nell’alfabeto arabo) con un sorriso radioso. In casa osserviamo benevolmente i loro scambi affettuosi, senza drammatizzare al pensiero che ci siano buone probabilità che le passino qualche pulce o qualche altro parassita indesiderato. Le condizioni di questa famiglia e di questi bambini, se non rappresentano la norma, non sono neanche un’eccezione. I bimbi di As Saddha, vivono per la maggior parte nelle sue strade. Sono vestiti di abiti che non sono mai della propria misura: troppo lunghi o troppo corti, quasi sempre strappati e sporchi; sono scalzi o i più fortunati, indossano delle scarpe di plastica stampate, che riproducono le sembianze di calzature vere. Girovagano senza alcun controllo, imbattendosi spesso in giochi pericolosi. Altre volte sono vittime di scoppi e di incendi che si consumano nelle pareti domestiche, quando non vigilati, si avvicinano troppo ai fuochi accessi, spesso sul pavimento, e una pentola di acqua bollente o i vestiti totalmente sintetici, provocano tragedie che nel migliore dei casi lasciano i segni per tutta la vita. Lavorano nei campi, fanno i venditori d’acqua negli angoli delle strade, oppure stanno per giornate intere in montagna, sui dirupi pietrosi a sorvegliare il gregge. Nonostante tutto però, i bambini rappresentano l’anima libera dello Yemen. Non sono ancora immalinconiti, come le donne, dal peso di una vita di lavoro e di sottomissione coniugale, o come gli uomini dagli umori bigi per effetto del qat, sanno bene che cos’è la gioia, e la si può spesso leggere nel nero profondo dei loro occhi, e nella spontaneità dei loro sorrisi.
Definire piazza, il luogo dove è situato il suq, sarebbe altisonante: le merci sono adagiate sopra uno spazio sterrato, pieno di fratture, di rifiuti, e di tubi ormai scoperti dalle sgommate dei pneumatici dei fuoristrada, che arrancano nel superare il declivio su cui si sviluppa il mercato. Camminandoci può essere opportuno fare attenzione a dove si mettono i piedi, per evitare di prendersi qualche storta o, nel migliore dei casi, di calpestare qualcosa di indesiderato. E’ un mercato povero, sicuramente commisurato all’economia della valle e della sua popolazione. Qualche venditore di frutta e verdura, qualcun altro vende polli e uova, e si riconosce dal tappeto di piume che lo circonda e dall’imbuto di ferro fissato su di un piedistallo, che fa pensare a uno strumento di tortura, creando la giusta “atmosfera” per il rituale che qui si consuma: il pollo appena sgozzato, viene disposto al suo interno a testa in giù, per consentire il completo defluire del sangue in una scodella disposta appena sotto. Successivamente viene praticata un incisione sul petto dell’animale, e con una manovra rapida e decisa, vengono tirati i lembi di pelle, fino a strapparla completamente insieme alle piume, dal corpo del volatile. Per chi è abituato ad acquistare la carne, scegliendola da un asettico scaffale di supermercato, mentre viene diffusa una rassicurante musichetta di sottofondo, può risultare assai cruento l’operato del pollivendolo. Subito al limite del mercato, un baracchino rosso ospita un barbiere.
Il “locale”, che rappresenta il luogo preferito dai pidocchi per perpetuare la loro transumanza, è veramente minuscolo, tanto che il cliente viene fatto accomodare su di una poltroncina all’aperto, sotto lo sguardo incuriosito dei passanti e, in particolare, dei numerosi bambini. Un altro bugigattolo, funziona da punto di ristoro, e per non essere da meno dei bar occidentali, ha su di un tavolino un piccolo schermo, contenuto in uno chassì ricavato da una cassetta di legno. Tutto intorno, un capannello di ragazzini segue in silenzio religioso la corsa di un’automobilina di formula uno, che un loro coetaneo guida virtualmente, su d’una pista perfettamente asfaltata. Salendo ancora, si raggiunge la zona più vecchia del villaggio, dove in un vicolo, si susseguono alcune case, che paiono essere il nucleo originario del villaggio. Alcune hanno ancora finestre in alabastro, e portoncini di legno massiccio, serrati da vecchi e ingombranti lucchetti in ferro. Inaspettatamente, tra gli spazi ristretti della viuzza, un paio di palme solitarie arrivano a sfiorare il tetto di alcune costruzioni. Qui, alcuni negozietti, provvedono a completare il “paniere” dei beni disponibili in As Saddha: il detersivo Tide, e la Canada Dry, tipici prodotti derivanti da processi industriali, trovano posto accanto alla farina e lo zucchero, venduti sfusi, che l’anziana commerciante misura con un recipiente di legno, ormai scuro per l’usura, attraverso movimenti lenti e curati, affinchè neanche un granello venga disperso. Tra di noi, il dialogo è estremamente essenziale. – Kilu succar….shukran! (Un chilo di zucchero, grazie!) — esplicito la mia richiesta e ringrazio senza alcun tipo di riscontro verbale da parte della vecchietta. Un po’ perché sorda, un po’ perché è schiva e giudica sconveniente (e sa di poter essere così giudicata), parlare con gli uomini, per di più stranieri. Davanti al baqqal (drogheria, ndr), soggiorna in permanenza un canuto signore dall’aria distinta. Seduto su un ampio sedile di un auto, con aria pacifica, è sempre intento a leggere una voluminosa copia del Corano, ed ogni volta che incrocia il mio sguardo, mi saluta a mezza voce, quasi avesse paura di perdere il “contatto” con il Profeta.
Se di giorno l’aspetto di As Saddha è desolante, alla sera, quando sono solo le lunghe candele di cera e qualche lampada a gas a rischiarare la notte, aumenta il senso di abbandono e di miseria. D’altra parte, in una realtà come questa, l’elettricità è da considerarsi un lusso, e per questo va centellinata tra tutti gli abitanti della valle, così da poterne usufruire solo una sera ogni tanto. Il pomeriggio diventa notte con una rapidità che sorprende quando nel volgere di mezz’ora le ombre si impadroniscono dell’oscurità. Sono quelle degli uomini che fanno ritorno a casa con il mitra in spalla, sputando sulla strada il bolo di qat prima di andare a consumare la cena; o quella di un pigro dromedario seduto davanti ad una bottega in attesa del padrone, oppure quelle dei cani randagi sulla strada che mi riporta a casa; resi arditi dal buio e dall’essere di nuovo branco, rappresentano un pericolo tale, da rendere opportuno armarsi di un bastone per allontanarli. Il cielo è carico di stelle e pare precipitare sul terrazzo di casa. L’unica luce accesa, è quella dell’insegna dell’ospedale, alimentato da un proprio generatore, il cartello con la mezza luna rossa e l’indicazione: “Mustashfà” (ospedale, Ndr), così variopinto e luminoso, fa pensare a quello di un booling. Nei campi, sotto casa, si vedono brillare come lucciole, le sigarette accese dei guardiani del qat, bene troppo prezioso per essere lasciato incustodito. Per ingannare la noia in attesa che giunga l’alba, ogni tanto scaricano qualche raffica di Kalasnikov per aria, infrangendo il silenzio che avvolge ogni cosa. In momenti come questo, mi sento pervadere da un senso di piena soddisfazione, che sicuramente pochi possono comprendere e ancora meno condividere: fuori ci sono degli uomini solitari che sparano alla luna, e io sono qua, al lume di candela, a riflettere su quanto sia lontano il mio paese, la mia città, la mia vita precedente, con le sue consuetudini e costrizioni. E mi compiaccio, per non avere fatto le cose a metà, alla ricerca di una nuova dimensione.
Il viaggio
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