Mestieri
operatrice turisticaLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
Stati Uniti d'AmericaData di partenza
1978Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)La scoperta di New York da parte di Gloria Bortolotti, milanese, durante un lungo viaggio effettuato nel 1978.
Giovedì 14 dicembre
Il quartiere cinese pieno di odori e sapori mi riporta in pieno oriente. La gente fa la fila per comprare il pane in bastoni, i granchiolini essicati, le mille cineserie che facevano la mia gioia al Soho di Londra: là era una strada, qui è quasi una città, centinaia di negozi che vendono tutto, le uova in coppia per mezzo dollaro (nell’antica Cina le uova le mettevano sottoterra e ritiravano cent’anni e più dopo, e quanto più erano vecchie tanto più eran considerate preziose).
Piove. Ansante, madida d’acqua e di sudore raggiungo il bus per un nuovo giro. L’autista gentile con me che sono quasi la sua unica passeggera mi consiglia il nuovo servizio per l’areoporto, fa una più lunga sosta all’onu, facciata tutta a vetri verdi, sopra e sottopassaggi per dirottare il traffico, bandiere. Scendo alla Pennsilvania Station per l’albergo. La città che corre velocissima e che cambia tutto nel giro di poche settimane ha aumentato de1 dieci per cento in un mese il costo della camera. Salgo ad asciugarmi presso un calorifero per fortuna bollente, spargendo e riempiendo di carta o tamponando con gli asciugamani la mia povera roba inzuppata, il mio cappello pieno di pioggia.
Mi cambio, faccio la doccia e curo un po’ i poveri piedi piagati. guardo il mio corpo tutto cosparsi di lividi viola, dalla tombola di san francisco a tutte le volte che ho urtato qua e là anche sul bus; sembro reduce dall’incontro con un sadico.
new York, domani ultima giornata con te, ma perché piove sempre!
La polizia abbaia per la strada, l’elicottero mi passa vicino e io dalla finestra guardo la punta dell’Empire su nel cielo, ora non più colorata ma splendente di luce bianca. Dodici ore di sonno filato e al mattino un magnifico sole.
Venerdì 15 dicembre
Esco dall’albergo, sfioro i mucchi d’immondizia pieni degli ombrelli rotti usati ieri, sul cultur-bus l’autista si ferma gentile nei luoghi più interassanti per permettere a due ragazze tedesche di scattare foto ricordo, ci mostra la guglia della Trinity schiacciata fra due immensi grattacieli, e sosta al ferry della Libertà permettendoci una passeg- giatina fra il vento sibilante, fino all’Hudson impetuoso che preme marrone con le onde schiumanti gli argini.
È passato solo un mese e siamo davvero in inverno. Per terra si sciolgono le ultime pozze di neve al sole ritornato; nessuno prende il ferry per il giro turistico, il parco è deserto, senza più musica né file per i biglietti. La gente entra in massa a prendere la Subway e scompare inghiottita dalle scale. Le macchine passano con neve e brina sul tetto, fa tanto freddo e non resisto alle folate.
Il driver sosta ancora per farci ammirare la vista del porto e il massiccio dei grattacieli di Walt Street, incongruenti nella loro potenza d’affari dietro a mucchi enormi di spazzatura. Passo sotto le quattro strade sovrapposte del Ponte di Brooklyn e scendo ancora al China Town. Mi circonda la folla vivace dei cinesi dai rapidi passetti, ma anche l’altra gente cammina in fretta, si ferma solo a comprare guanti di lana e plastica o frutta gigantesca dalle bancarelle in mezzo alla strada, scostando i venditori ambulanti che insistono per vendere le loro paccottiglie. È sera, passo per la quinta volta il ponte di Manatthan e ripenso ai miei acquisti. L’autista sfinito da un turno di lavoro che comprende una giornata di pioggia e un venerdì natalizio di traffico bestiale, sogna solo di arrivare alla fine, di star a casa 24 ore filate come gli spetta, per poi ricominciare la stressante routine che oltre alla guida prevede il pagamento in monete da 25 cents e il rilascio delle tessere di viaggio. È un negro, simpatico, estroverso, con cui converso per due ore con le parole e con le mani, e non so cosa avrà capito lui ma a me, che non so né parlare né comprendere lo slang americano, par di aver capito tutto, anzi è più facile capirsi a new York che a frisco perché sulla Costa hanno un dialetto stretto, completamante diverso.
Sono seduta fra gigantesche borse d’acquisti. Ho passato una giornata fra surplus e indumenti sportivi, e avrei voluto comprare di tutto: camicie a quadri, scarpe jogging coreane, montone col collo di mongolia, renna, tuta e kimono. fra centinaia di pelliccie di tutti i tipi, prezzi e pesi, spicca un manto di ermellino, splendido e leggerissimo, di cui non oso chiedere il prezzo che immagino astronomico. una vera, immensa cappa reale, foderata di velluto di seta, ampia come una coperta matrimoniale e leggera come una piuma. ne ero affascinata ma sarebbe stata una follia comprarla; ma almeno toccarla e provarla…
Interpretando la mia incertezza la commessa-padrona si fa gentile e suadente: «È di Deborha Kerr». Per una che non ha visto «le miniere di re Salomone» né «Anna e il re del Siam» il nome non dice niente.
«Pubblicata» dice la commessa, «fotografata sui “magazines”.»
Me ne decanta i pregi per aumentarne il prezzo; timidamente, per non parer scortese e rifiutare subito chiedo: «How much?» Centottanta o centoventi dollari, non comprendo bene. In ogni caso troppo poco perché non abbia male interpretato, e allora per essere certa domando: «Hundred?» La signora resta un attimo incerta poi mi fa: «okey, okey!» e mi porge la favolosa cappa tendendo la mano per prendere i soldi (che poi sono centodieci perché su tutto – anche sulla roba usata – c’è il 10% di tassa).
resto interdetta, confusa, sbalordita. Mio quel manto regale? Mia per cento dollari quell’ideale corona dei miei più pazzi sogni di gloria? quando prendo il loup per il ritorno lascio i pacchi in stazione ma il manto me lo porto in stanza, mi ci abbiglio, abbasso il collettone che fa anche cappuccio ora nero ora bianco a seconda di come giro la cappa; intanto le leggere, oblunghe, tenere pelli fremono appena mosse come piume che vibrino al minimo vento, come caldo velluto vivo sotto la mano, come trepida, serica pelle del più regale degli ani- mali per la più regale delle pellicce. Mi sento avvocatessa che arringa, dogaressa che si fa ritrarre da Tiziano, magari la regina di Scozia che sale al patibolo, e anche una delle tante straccione che inseguono il sogno americano in questo paese tanto pieno di solitudine da cercare ogni calore possibile.
Anche questa è l’America che ho conosciuto: al banco del bar i giovani stanno aggrappati al loro bicchiere come a un calice insostituibile, ma spesso è un bicchiere di acqua minerale, lo champagne di tutti, che dà anche la gioia di rinunciare al lusso, di sentirsi puri, attraverso la rinuncia, lo jogging e i pasti saltati – per economia e dieta ferrea.
Il viaggio
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