Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Inevitabilmente, il processo di ambientazione di Silvana Conci in Sudan, nel 1973, si scontra con le difficoltà linguistiche e con la fauna locale. Solo in parte l’aiuta Bol, il marito sudanese che Silvana ha conosciuto in Italia e sposato, per il quale si è trasferita in Africa e dal quale aspetta una figlia.
24 giugno 1973. Essendo Bol “Assistant Executive Officer”, appena arrivati a Bentiu fummo accolti dal suo capo: il “Commissioner Executive Officer” John Wijal, anch’egli Nuer. Ci ospitarono nel giardino della casa governativa, retaggio della passata dominazione inglese, con molta cordialità. Riconobbi Dinka e Nuer dal tatuaggio che portavano sulla fronte. Entrambi i gruppi etnici portavano disegnate, incise nella pelle, delle linee orizzontali che terminavano dietro le orecchie. Ma le linee di quel gruppo Dinka erano più numerose e ravvicinate rispetto a quelle dei Nuer. Mio marito mi presentò diverse persone, quasi tutte aventi incarichi governativi. Erano l’élite di Bentiu. Ed erano tutti uomini. Attorno a noi molte piante: manghi, banani, papaie. Fuori, la gente che passava e curiosava. A fianco il Bahr el Ghazal che scorreva tra i papiri… Ben presto gli uomini presero a discutere ed io rimasi ad osservare. Da principio Bol traduceva stralci di discorsi, poi restai sola. La conversazione iniziata in inglese, si infervorò e via via passò indifferentemente all’arabo e al nuer. A seconda della lingua usata comprendevo il grado di concentrazione sull’argomento trattato. Dinka e Nuer sono tribù affini tanto che pure la loro lingua è simile. Per loro non c’erano dunque problemi, ce ne furono per me. Non conoscere la lingua di un popolo è un handicap enorme. Imparare tre lingue contemporaneamente sarebbe stato per me impossibile. Mi rendevo conto che Bol non avrebbe tradotto all’infinito, come me la sarei cavata? Stupore, timore, fascino… Mi trovavo in una piccola parte di quella grande Africa che avevo tanto sognato. Ad un tratto il mio occhio si posò sulla sedia di Bol e lo spavento fu terribile. Un serpentello piccolo e verde si dimenava sullo schienale della sedia verso le spalle di Bol. Impallidii, mi alzai e mi rivolsi a quei signori con gli occhi sbarrati. Non sapevo parlare le loro lingue e non volevo spaventare mio marito. E la voce non veniva. Qualcuno vide, avvisò Bol che, col piede, buttò a terra la sedia alzandosi di scatto. Mi dissero che non si trattava di un serpente velenoso, ma che il fatto era di cattivo auspicio. Non volevo crederci. Non volevo dar peso a delle superstizioni. Quando all’improvviso calò la sera di quel mio primo giorno a Bentiu, una vena di inquietudine si insinuò nel profondo, mentre i miei occhi cercavano di individuare il soffitto di paglia della capanna che fu la nostra provvisoria dimora.
In seguito ci assegnarono una casa, lontana dal fiume e dal villaggio ma non proprio isolata. Per molti giorni pensai solo alla nostra casa: a pulirla; a ripararla modificando particolari; soprattutto a liberarla da topi, pipistrelli e insetti vari con l’aiuto di Bol. Temevo soprattutto i pipistrelli, probabilmente per le errate informazioni che avevo ricevuto di questi animali nella mia evoluta società. Molte delle mie paure infastidivano mio marito, ma di alcuni pericoli lui stesso mi informava e mi insegnava a difendermi. Un giorno ci dissero che in una casa poco distante si era insinuato un grosso serpente e che lo avevano ucciso a colpi di pistola. Bol non aveva armi, come avremmo fatto se fosse accaduto a noi? Venni a sapere, sempre in quel periodo, che un grosso boa si stava mangiando le oche nel giardino di John e non riuscivano a prenderlo. Preoccupata, presi l’abitudine di controllare giornalmente le zanzariere e i canali di scolo per tappare o proteggere con reti. Prendemmo un gattino e acquistammo delle galline. Sarebbero stati degli ottimi guardiani avvisandoci, col loro chiocciare e miagolare, di eventuali presenze sgradite. Lungo il tratto di strada che separava la nostra casa dal fiume trovavamo spesso serpenti. La gente li lasciava andare ma in caso di pericolo ogni Africano, anche bambino, avrebbe saputo difendersi semplicemente con un sasso o un bastone. Io avevo solo la possibilità di lasciarli andare.
Il viaggio
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