Mestieri
insegnanteLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
Stati Uniti d'AmericaData di partenza
1964Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Temi
nostalgiaTemi
nostalgiaLa nostalgia di casa porta G.M. a viaggiare con la fantasia e la memoria fino a ripercorrere mentalmente le strade di Milano, la città dove ha vissuto per anni prima di trasferirsi negli Stati Uniti.
Da LA ripensavo Milano come l’avevo vista appena arrivata, due anni dopo la fine della guerra, e negli anni successivi. La piazza del Duomo ci aveva portato papà a vederla, e io guardavo i cartelloni della pubblicità davanti alle facciate delle case bombardate, le insegne colorate continuamente accese e spente, le scritte in corsa veloce su nastri luminosi di bianco, e non mi stancavo di fissare incantata una gallina rossa e gialla all’interno di un ovale di uova gialle che si accendevano una dopo l’altra e diventavano la reclame del VOV. Il corso Vittorio Emanuele senza più macerie per strada, ma le case svuotate, ridotte a fondali, ben visibili sulle pareti interne i segni delle scale e dei piani crollati, e tappezzerie con colori e disegni diversi, piastrelle bianche dietro inesistenti fornelli e lavandini. La Scala, deludente la prima volta, vista dall’esterno, perché dalle parole di mia madre me l’aspettavo più grande e imponente e non sapevo neanche quando o in che stile fosse stata costruita. In seguito la vidi dall’interno, e mi parvero bellissimi il grappolo luminoso del lampadario, il velluto rosso frangiato d’oro del sipario e l’incurvatura dei palchi dorati. Li sbirciavo dalla prima o seconda galleria, dopo aver fatto di corsa le scale di cinque o sei piani, per assicurarci i posti contro la parete di fondo e poterci sedere per terra, e scattare a occupare qualche poltroncina tenuta d’occhio e rimasta libera dopo l’intervallo. Era stata ricostruita in fretta, la Scala, ma nell’atrio guardavo con dolore le foto della platea ingombra di macerie, il soffitto sprofondato, le poltrone bruciate. Ripensavo alla Ca’ Granda, dove avevo fatto gli ultimi anni di università, e ne avevo amato i cortili a portici, le bifore in cotto. Sulla strada percorsa dall’autobus un bel balcone in ferro battuto, prima tutto torto in mezzo a muri semi distrutti, poi raddrizzato, i muri ricostruiti con mattoni nuovi accanto a quelli di un rosso più cupo. Ritornava in mente una volta che ero uscita con nonna, e alla fine di via Passione aveva detto che quando lei era giovane al posto della strada di circonvallazione scorrevano i navigli, e in quel punto specchiavano gli alberi di un giardino. È rimasto solo un parapetto settecentesco, di quel giardino patrizio, e due stemmi sulla facciata spoglia di un edificio moderno ricordano la casata e il palazzo antico distrutto dalle bombe. Com’erano i navigli quando ci viveva lei, e prima ancora, l’ho visto da poco, in un quadro al Museo di Milano, e sono rimasta a lungo a guardarlo. L’acqua scorre su un lato di via Senato, all’ombra di alberi e cespugli, visibile dai parapetti a colonnine che delimitano la strada. Adesso intasata, appestata da autobus e macchine e motorini, allora percorsa da poche carrozze a cavalli su corsie di pietra, da passanti e cani sull’acciottolato. A volte quando vado a Milano e ne percorro le strade, mi capita di pensare alla sua storia, ne cerco le tracce rimaste. Guardo eleganti colonne romane, incapace di immaginare il tempio di cui facevano parte e la città all’Intorno, scopro la torre di un misterioso Ansperto all’interno del Museo archeologico, mi unisco a un gruppo di scolari seduti intorno al plastico di Milano romana e medioevale, attenti all’insegnante, e penso che sarebbe bello se anche Livia e Flavia fossero tra loro, potessimo condividere la conoscenza di questa città che amo. A LA la scoprivo distrutta per ordine di generali “alleati”, quando ormai la guerra era persa, dopo la caduta di Mussolini, e non c’era più bisogno di tanta distruzione. Mai, dai tempi del Barbarossa, che forse Livia non ha ancora studiato, Milano aveva patito tanta violenza, e ancora oggi viene da maledire chi quella guerra aveva scatenato, ma anche chi aveva voluto punire un nemico ormai sconfitto, e l’aveva fatto in modo feroce e colpendo non obiettivi militari ma case, scuole, chiese, ospedali, teatri e musei, lacerando per sempre l’identità materiale di una città stratificata in almeno venti secoli, uccidendo persone che dei responsabili di quella guerra erano state in gran parte vittime, sui fronti e nelle città. Vittime in gran parte consenzienti, a rivedere adesso in TV il delirio delle folle che ascoltavano Mussolini, ma forse consenzienti perchè sprovvedute, non-persone rintronate dalla propaganda del regime, educate a non pensare ma a “credere e ubbidire” poi anche a “combattere”, costrette dalla mancanza di un’informazione libera, non univoca, a non potersi fare un’idea della realtà, a non poter esercitare la propria capacità di giudizio. Non-persone a cui era proibito esprimere e confrontare le proprie (eventuali) idee. Fino a quando la fame, le distruzioni, le persecuzioni avevano cominciato a fargli capire la verità. Di quanta ottusa violenza o deliberata ferocia erano capaci da sempre gli uomini, tutti, inglesi americani tedeschi russi italiani. Quante energie spese a distruggere, e l’ignobile balletto, finito il macello, di aiuti umanitari e scambi commerciali e accordi culturali (… la tradizionale amicizia dei nostri due popoli…), il ritorno da turisti, da amici – fino alla prossima volta – negli stessi paesi fino a poco prima considerati e colpiti come nemici da annientare.
Il viaggio
Mestieri
insegnanteLivello di scolarizzazione
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Stati Uniti d'AmericaData di partenza
1964Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Gli altri racconti di G. M.
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