Mestieri
imprenditoreLivello di scolarizzazione
frequenza scuola media inferiorePaesi di emigrazione
LibiaData di partenza
1951Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)L’ultima parte del viaggio verso la Libia riserva altre complicazioni e altri incidenti di percorso alla famiglia Subiasciaki. Che però non si perde mai d’animo, e grazie al coraggio del padre e della madre di Kemal riescono ad arrivare a destinazione, a Bengasi, dove ad attenderli c’è la famiglia d’origine.
Stavamo uscendo dall’Egitto e la prima cosa che pensammo, fu “finalmente siamo sulla strada di casa .” Ma eravamo ancora a cinquecento chilometri da Bengasi.
Poco dopo si mise a piovere, una pioggerellina piacevole che rinfrescava l’aria e dava un senso di sollievo, dopo il caldo dei giorni passati, poi gradatamente aumentò di intensità fino a divenire un vero e proprio diluvio d’acqua, seguito da raffiche di vento che facevano sbandare la Balilla e rendevano ineffettivi i tergicristalli, limitando la visibilità a pochi metri. Sebbene in quelle condizioni mio padre continuò a viaggiare, sperando sempre di trovare un riparo al più presto. Improvvisamente si trovò la strada sbarrata da un palo di legno, dipinto a strisce bianche e nere, con al centro un cartello su cui era scritto” STOP”, un’attimo prima di cozzargli contro. Avevamo mancato per pochi centimetri la sbarra di confine, invisibile al buio e in quelle condizioni atmosferiche. Immediatamente due uomini armati di fucili, uscirono da una costruzione quadrangolare di blocchi di tufo, adibita a posto di confine, urlando ordini e dando calci agli sportelli, minacciandoci nel contempo con le armi per farci uscire dalla macchina.
Un minuto dopo eravamo di fronte all’ufficiale comandante il quale urlando chiese a mio padre i documenti, mentre due militari ci tenevano i fucili puntati sulla schiena, Papà con calma cercava di spiegare all’ufficiale, che a causa della pioggia non aveva visto la sbarra e che non aveva nessuna intenzione di passare il confine illegalmente visto che i nostri documenti avevano i timbri del nostro passaggio lungo il tragitto. Ma sebbene non ci fosse ragione per un trattamento di quel genere, l’ufficiale ordino a mio padre di scaricare tutto il bagaglio dalla macchina e di portarlo sotto il porticato.
Quando mio padre ribadì che stava piovendo, l’ufficiale diede in escandescenze e disse che se non veniva eseguito il suo ordine immediatamente saremmo stati arrestati.
Papà con rabbia mal celata, rimuovendo sotto la pioggia i due materassi legati sopra il tetto della macchina, strappò il telone della Balilla, così alla beffa si aggiunse anche il danno.
Ci buttarono all’aria tutto con la scusa che dovevano fare i controlli e passammo parte della notte ad aprire e chiudere valigie e pacchetti.
Quando infine l’ufficiale fu soddisfatto, ridiede i documenti a mio padre e con un sorriso mellifluo, disse che tutto ora era in regola.
Continuava a piovere e il buio era totale, ma papà non esitò a partire anche se l’ufficiale lo aveva sconsigliato di viaggiare in quelle condizioni.
Due ore dopo aver lasciato il posto di blocco con la nostra roba accatastata alla rinfusa nel cassonetto e in ogni spazio possibile, ci fermammo per evitare qualche altro inconveniente. Alla fievole luce dei fari, mio padre si fermò in una pianura ai margini della strada scendendo un leggero pendio, per passare il resto della notte in qualche modo, mentre io e mio fratello seduti sul bagaglio, sopportavamo in silenzio lo sgocciolo dallo strappo del telone.
Sebbene in quelle condizioni, la mamma riuscì a preparare dei panini, che ci passò dal finestrino della gabina, cercando di mascherare con quel gesto la sua preoccupazione per il buio che ci circondava e quella pioggia incessante.
Alle prime luci dell’alba ci rendemmo conto di esserci fermati nel bacino di un wadi e si vedeva l’acqua che scorreva veloce intorno a noi.
Non c’era un minuto da perdere, bisognava portarsi fuori dalla valle al più presto. Per colmo di sfortuna la batteria si era scaricata per un falso contatto e le ruote incominciavano già a sprofondare nella fanghiglia.
Scendemmo tutti dalla macchina sotto una pioggerellina fastidiosa e fredda e con la forza della disperazione incominciammo a spingere la macchina sul leggero pendio con l’acqua ormai all’altezza delle ginocchia, ma non avendo la forza di arrivare fin sulla cima, la macchina ritornava indietro, mentre l’acqua continuava a salire. Spingendo con tutte le forze, mi venne l’idea di allungare la mano e prendere il fustino della benzia di scorta, che era vuoto e metterlo sotto la ruota e con un’ultimo disperato sforzo, superammo il dislivello spingendo poi la macchina sulla strada in pendenza, dove mio padre riuscì a mettere in moto il motore.
Raggiungemmo la cima della collina difronte a noi e ci fermammo a guardare allibiti la massa d’acqua che scorreva rapida sulla pianura. Se il motore non si fosse messo in moto subito, saremmo stati travolti da quella massa di acqua e fango, che ora aveva sommerso completamente la strada.
La pioggia cessò con il sorgere del sole e il vento spinse le nubi verso sud-ovest illuminando gradatamente il cielo. Eravamo sfiniti, coperti di fango e infreddoliti, ma incominciammo subito a scaricare tutto dalla macchina per rimettere un po’ di ordine alle nostre cose, inzuppate d’acqua a causa dello strappo al teloncino.
La mamma sebbene molto stanca, ancora una volta preparò la colazione, scaldando il latte in scatola con la solita spiritiera e mentre facevamo colazione in silenzio, osservavo la sua dedizione alla famiglia e la sua espressione determinata di non lasciarsi abbattere dalle avversità.
Restammo sulla strada tutta la mattinata, mettendo ad asciugare la roba bagnata, e dopo aver rimosso il telone dal cassonetto, la mamma ricucì lo strappo con ago e filo prelevati dalla sua scorta di emergenza. Fin dal giorno prima non avevamo incrociato nessuna macchina e in quella vasta zona si aveva la sensazione di essere gli unici abitanti del pianeta.
Giunti quasi alla meta, incontrammo lo zio Mehmed che ci era venuto incontro con la sua motocicletta, dopo aver ricevuto la telefonata di papà da Derna e ci accompagnò fino a casa dei nonni, dove mio padre riabbracciò sua madre dopo una lontananza di sedici anni.
Il lungo e faticoso viaggio dall’Eritrea ci aveva fatto dimagrire in maniera preoccupante e la mamma era completamente esaurita, perché in cinque settimane di viaggio avevamo perso un terzo del nostro peso corporeo.
Ora incominciava la nostra nuova vita.
Il viaggio
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LibiaData di partenza
1951Periodo storico
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