Missionario

Avevo chiesto di essere inviato in missione sette anni prima, preso dall’entusiasmo della prima messa e la risposta che allora non si era fatta attendere mi destinava al Perù ad insegnar teologia. Avevo fatto marcia indietro nella illusione che avrei realizzato il mio ideale anche in Italia. Ma questa volta non c’erano più dubbi perché – con l’esperienza accumulata e le molte delusioni – volevo fortemente essere missionario. Ero insoddisfatto in Italia. Facevo le cose con passione e correttezza ma c’era qualche cosa, nel fondo, che causava in me una sottile insofferenza la quale – del resto – mi avrebbe sempre accompagnato fino al giorno in cui non ho imboccato la strada di decisioni radicali. Mi ero fatto prete un po’ portato dagli eventi ed esser prete salesiano era stata più una coincidenza che non una vera scelta. Mi piaceva lo spirito originario dei salesiani, l’opera prima di Don Bosco, la sua povertà e quel servizio che ritenevo per qualche verso “di classe”. Ma mi accorgevo di trovarmi ad operare in una realtà tutta diversa, io pure piccolo ingranaggio della imponente macchina e ascoltavo annoiato le ragioni con cui si cercava di giustificare l’evidente anomalia. Mi sentivo impotente non ultimo per le mie scarse capacità di analisi e di proposta. Mi era più congeniale la rottura che era la strada più diretta e, per me, la più facile. Significava in quegli anni cercar maggiore impegno, maggiore dedizione e sacrificio e situazioni oggettive in cui lo spirito “del fondatore” fosse ancora presente. Credevo fortemente che avrei trovato tutto questo in terra di missione.

E così mi ritrovai con la piccola lettera in mano davanti a un vecchio atlante scolastico a sognare e a far progetti.