Mestieri
missionarioLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
AlgeriaData di partenza
1964Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Trascorso il noviziato, Cosimo si reca in Algeria insieme ad altri confratelli della comunità dei Piccoli Fratelli di Gesù. La sua metà è Benì Abbes, una piccola città-oasi nell’area sahariana del Paese. Per arrivare affronta un lungo viaggio a piedi e in autostop.
Viaggiare mi ha sempre messo addosso un senso di nostalgia, misto ad un senso di tristezza. Partire è sempre un distacco da qualcosa che ci appartiene, ci è familiare, e allo stesso tempo è un andare incontro all’ignoto, l’indefinito, anche se a muoverci è un progetto ben definito, come nel mio caso. Conoscevo la meta, ma il cammino era tutto da scoprire e da vivere. Mi sorreggeva l’esperienza di Dio, la certezza che Lui non mi abbandonava mai. Viaggiavano con noi qualche centinaia di algerini, lavoratori emigranti, che facevano ritorno in patria. Avevano come noi fatto il biglietto per viaggiare sul ponte della nave, senza cuccetta. Avevamo a disposizione una sedia a sdraio e una coperta. Era la prima volta che prendevo una nave. Il mare mi ha sempre affascinato. Sin da piccolo, durante le lunghe giornate estive, con i compagni di gioco, riuscivamo senza il permesso delle nostre madri, ad andare con le biciclette al mare di Barletta, percorrendo i dieci chilometri che ci separavano. Era sempre un’avventura emozionante e trasgressiva. Il mare ha sempre esercitato su di me un fascino particolare, un rapimento, un’estasi. Di fronte al mare mi sono sentito sempre sperduto, rapito, travolto dalla sua immensità, dal suo prolungamento infinito col cielo.
Quelle emozioni le provai intensamente una volta scomparsa l’ultima linea della costa francese. Tutto intorno era acqua e solo acqua. E capi che pur stando in un piccolo mare, il Mediterraneo, quando non si ha nessun contatto, neanche visivo, con la terra, qualunque mare è un oceano. E mi beavo in quel dolce pensiero, misto ad un sottile, ma vivo timore, di solcare per la prima volta quelle acque che da millenni avevano fatto da navigazione a uomini in cerca di fortuna e di avventure. Vicino a me sedeva Mustafà. Era un algerino di Sidi-Bel-Abbés, sulla quarantina. Tornava dai suoi dopo sei anni di duro lavoro. Tornava per la seconda volta, in quindici anni di vita da emigrante in Francia. “Ho fatto di tutto”, mi raccontò. “Dai lavori più duri neí campi salmastri delle Camargue, al manovale muratore a Saint Etienne prima e poi a Parigi”. Nella capitale si trovò proprio durante gli anni dell’indipendenza del suo Paese. “Dovetti subire ogni sorta di angherie”. Aveva lasciato i suoi quattro figli e la moglie a metà anni cinquanta e non aveva più loro notizie. Nel sessanta quattro gli bloccarono il “visto” per il rientro. Nel pomeriggio il mare cominciò a farsi alto. La nave dondolava sulle onde che gli si infrangevano a prua. Il rantolo dei motori che a fatica facevano avanzare la nave tra l’infuriare delle onde, veniva in parte coperto dall’ululare della tempesta. Quell’enorme “barcone” barcollava sui flutti schiumeggianti, come un fuscello. Tutti c’eravamo portati sotto coperta, all’ordine del capitano che ci aveva tranquillizzati. Ognuno di noi s’era trovato un appiglio a cui aggrapparsi, che lasciava a fatica solo per andare all’aperto a svuotare lo stomaco. Il pallore s’era stampato sui nostri visi. Gradita ci giunse la voce del capitano che c’ informava sul cambio di rotta, per avvicinarci alle coste spagnole. La notte scese il freddo. La sola coperta non bastava a riscaldarci.
Il mare come un gigante s’era acquietato nelle fitte ombre della notte. Il sole ci giunse graditissimo. E col sole la vista di alcune balene divenne più affascinante, specialmente lo zampillo che di tanto in tanto appariva sul loro dorso. L’arrivo ad Orano era previsto per le sedici. Walter, subito dopo lo sbarco, spostò all’indietro le lancette del suo orologio. Cosa che feci anch’io. Giungemmo dalle Piccole Sorelle, che il sole era già scomparso dietro i palazzi più alti della Città. Orano pur essendo città portuale, mi apparve ordinata e tranquilla. Con Raoul e Joshyito uscimmo a fare un giro per la Città. Avevo da comprare gli “scuri” per i miei occhiali, visto che avevo dimenticato di farlo in Francia.
Il mattino successivo ci alzammo di buon ora. Prima dí metterci in viaggio, recitammo le lodi nella cappella addobbata con una rete di pescatore a rappresentare l’ambiente di vita del quartiere. Se tutte le cappelle delle Fraternità che avevo gíà conosciute mi avevano sempre parlato direttamente al cuore, quella lo fece al superlativo. Mi sentii d’essere nell’arco di Noè, dove si percepiva la semplicità, l’essenzialità della vita dei pescatori. Con quell’immagine biblica negli occhi, lasciai Orano per l’oasi di Béni-Abbès. Ci dividemmo a due a due, così come Gesù aveva detto ai suoi discepoli. Mi avvia con Joshyito. Facemmo insieme il tratto di strada che portava all’uscita della città, verso Sidi-Bel Abbès. La prima macchina che si fermò, poteva prendere solo uno dei due. Feci salire Joshiyito. Avevo con me una piantina geografica delle località, dove avrei potuto trovare ospitalità in caso di necessità, oltre che ad un pugno di datteri e una bonaccia d’acqua.
Dopo alcune ore di cammino, mi raggiunse una macchina, alla quale accennai ad un passaggio. In un sol colpo avevo percorso duecento chilometri, circa. L’automobilista mi lasciò sulla piazza del mercato a Bacheria, che erano le dodici appena passate. Fui attratto dalle bancarelle della frutta e verdura, ma soprattutto dalle stuoie stese a terra con sopra mucchi di datteri, fichi secchi e frutti di mandorle. “Acheté”, “Acheté vou!”, annunciarono con un filo di voce, alcuni venditori, vedendomi., mentre gli altri rimasero a farfugliare nella loro lingua e seduti sui talloni, in puro atteggiamento di preghiera. Avevo con me pochi franchi. Ne presi due e indicai al signore dei datteri, vestito col tradizionale “bournos” di mettermene un po’ nel sacchetto che avevo con me. “C’est trop “, gli dissi, tanto me l’aveva riempito. “Tiens toi”, fu la risposta. Lo ringraziai, ma sul suo sguardo lessi un lampo di meraviglia, alla vista dei due franchi. Mi avviai che il paesaggio cominciava a cambiare. Le ampie zone coltivate a frutteto e ad orti, si facevano sempre più rade. Avevo da poco ripreso la strada, questa volta diretto per Saida, quando, girando lo sguardo all’indietro, vidi da lontano arrivare una macchina. Era un commerciante, distinto signore, che si fermò prima ancora ch’io facessi segno. Arrivammo a Saida che il sole tramontava, lasciando i suoi ultimi fiochi raggi lambire quel paesaggio che stava prendendo le sembianze della savana. In un giorno avevo percorso quasi cinquecento chilometri. La cittadina mi apparve deserta, con poca vegetazione. Mohamed, l’automobilista, parlava bene il francese. L’aveva studiato a scuola e perfezionato in Francia. Mi raccontò che era stato un “piè-noire”, cioè un emigrante maghrebino in Francia. Mohamed amava la conversazione. Lungo il viaggio mi aveva tempestato di domande del tipo: “Pour quoi va toi a Béni-Abbès?”. “Qu’ est-ce-qu-il foin les petite freire?”, “Toi est religieux? » eccetera, eccetera.
Mohamed volle portarmi a casa sua. A niente servì la mia insistenza a non voler approfittare della sua generosità. “Pour nous arabi l’hospitalitè c’est sacrè”. Nel deserto non va mai lasciato nessuno a se stesso. Finii con l’accettare il suo invito. La casa era semplice, ma molto raffinata. Mi fece accomodare nella stanza degli ospiti. Intravidi dal corridoio una figura di donna che gli andò incontro per abbracciarlo. Ero emozionato. Mi giungeva dalle altre stanze un parlare fioco, appena percettibile. Cominciavo a capire che gli arabi parlano con un filo di voce. Mohamed riapparve scusandosi, per avermi lasciato solo. Poco dopo fece portare da bene. Credo fosse cascadhè. A portarcelo fu suo figlio, che poteva avere una quindicina d’anni. Conversammo un po’ sulla situazione politica ed economica italiana e francese, soprattutto della contestazione giovanile. Ci fece portare la cena a base di potage di verdure e succhi di frutta. L’aveva preparata la moglie, ma la servirono attraverso un passaggio girevole tipico dei conventi di clausura. Le regole comportamentali islamiche sono rigide. Per le strade avevo già notato le donne di una certa età coperte dal velo (“chador”). A svegliarmi la mattina fu la voce d’un lamento, che giungeva da lontano. Seppi poi essere quella del “muezzin”, l’annunciatore delle preghiere, che sono scandite in ben cinque momenti diversi della giornata. Con Mohamed e il figlio ci eravamo salutati la sera. Mi aveva detto che il mattino potevo partire quando lo ritenevo opportuno.
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