Nostalgia dell’Italia

La prima settimana di insegnamento mi aveva stancata, però mi pareva che l’avrei saputo fare. Dovevo studiare, prepararmi, perché non mi ero mai trovata davanti venti venticinque persone già adulte, che facevano domande a brucia pelo a cui a volte non sapevo rispondere, e mi rendevo conto che una cosa era saper parlare e scrivere bene la propria lingua, un’altra saperne spiegare le regole, perché si diceva in un modo invece che in un altro. Se il femminile era in—a- come in casa, perché la mano era in —o-come il libro, maschile? E se il pigiama era maschile perché finiva in a? E perché il presente del verbo avere un po’ aveva l’h e un po’ no? In dipartimento non mi avevano dato nessun suggerimento, non c’era stato nessun corso, sia pur breve, per apprendere un metodo di insegnamento che mi sarebbe stato utile. Avrei imparato da sola, ma ce l’avrei fatta, mi ripetevo. Avevo voglia di vedere M.. Nella lettera diceva “a bientot”, poi anche lui sarebbe andato in Europa per lavoro. Arrivavano lettere dall’Italia, da mio padre, con giudizi negativi e consigli che non potevo accettare: “pensa a quando avrai cinquanta, sessanta anni, e potrai pentirti delle decisioni prese adesso…”. Ero sola sola sola. Ogni passo, ogni mossa allontanavano di più da “prima”. Con tanta paura, soprattutto per i soldi, e faccende a cui non avevo mai pensato; assicurazioni, assistenza medica, dichiarazione dei redditi, detrazioni ecc. Inaspettata, una sera dalla radio uscì a travolgermi un’ondata di musica italiana: “Oh mia patria, sì bella e perduta…” da far morire dal desiderio di essere in Italia. Non importava la gente, i parenti, gli amici. Solo la terra, la mia terra, che era dentro di me, parte di me.