Mestieri
hostess di voloLivello di scolarizzazione
diploma di scuola media superiorePaesi di emigrazione
Stato di PalestinaData di partenza
2000Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Roberta Mugnai è a Hebron nell’estate del 2000, crocerossina in missione come osservatore. Queste pagine raccontano il suo approccio nella città divisa tra israeliani e palestinesi e i numerosi episodi di tensione e violenza che ha vissuto da testimone diretta.
Nella zona H2 di Hebron si trova la via Al Shuhada. Questa breve via inizia da CP 56 (checkpoint) al di là del quale, Zona H1, c’è una piazza con una stazione dove sostavano in fila decine di taxi gialli, molti dei quali nuovi fiammanti. Avevamo sempre difficoltà a transitare su questa piccola piazza a causa del traffico inquinante dei mezzi e dei pedoni che, disordinatamente, camminavano ovunque senza curarsi delle macchine. Molti negozi, soprattutto di oro, verdura e frutta, abbiglia-mento e molte bancarelle, la rendevano affollata al mattino. Al CP 56 di via Al Shuhada termina la via Jabal al Rahme che scende giù dalla colli-na di Tel Rumeida. Qui stavano sospettosi i militari israeliani, controllavano i palestinesi che, dalla Zona H1, entravano in Zona H2. Via Al Shuhada fu chiusa al traffico subito dopo l’inizio dell’Intifada da blocchi di cemento comunque, le macchine dei palestinesi, non potevano entrare anche prima della sua chiusura. In breve, tutta la via è in mano ai coloni essendoci lì le loro colonie. Infatti l’economia araba della via Al Shuhada è crollata, i negozi sono tutti chiusi tranne uno, quello di un barbiere che, in seguito, chiuse anche lui. Pochi gli arabi che, frettolosamente, transitano a piedi per questa via, ormai stranieri nella propria strada. Passano, invece, i settlers che si recano nei settlements e alla Sinagoga di Abramo. CP56 è uno dei checkpoints di Hebron preso di mira dai palestinesi durante i clashes. Sorvegliando a piedi la via Al Shuhada sentivo lo sguardo su di me dei bambini che, attraverso le grate delle finestre, mi spiavano curiosi. Incrociavo i coloni senza che mi degnassero di uno sguardo, anzi, temevo che potessero infastidirmi, come fecero diverse volte, affinché desistessi dal fare il mio lavoro. Il settlement di Beit Hadassa sta a circa metà della via. Al suo interno c’è un museo dove sono esposte foto che ricordano la strage degli ebrei subita a opera degli arabi, loro vicini di casa nel 1929. Non ci sono mai entrata anche se avrei potuto. Spesso, parcheggiata davanti a Beit Hadassa c’era un’ambulanza, una “Mobile Intensive Care Unir con la “Magen Dawid’ Adom”, la stella di Davide rossa, corrispondente alla nostra Croce Rossa. Sullo stesso lato di Beit Hadassa si trova un compound militare israeliano, era una vecchia stazione araba di bus, un punto di incontro, chiusa nel 1986 e successivamente trasformata, appunto, in un compound militare israeliano. Dal lato opposto della via c’è uno spiazzo, un vuoto, si capiva che ci doveva essere stata una costruzione. Mi fu detto che la vecchia casa araba che sorgeva sullo spiazzo fu abbattuta dai militari israeliani per security reasons (ragioni di sicurezza). Fu proprio più o meno in questo punto della strada che, una sera, mi rifugiai a ridosso di un muro cercando riparo da pallottole che sfrecciavano alte poco più della mia testa, sparate durante una battaglia notturna tra coloni, militari israeliani e militanti palestinesi.
Sempre nello stesso punto, una mattina, la nostra macchina venne colpita da una pietra. Di per sé l’episodio fu insignificante, non facevamo mai rapporti per qualche pietra lanciata contro di noi invece, il gesto divenne interessante, quando ci accorgemmo che a lanciare la pietra era stato un ragazzino ebreo di circa cinque anni. Lo vedemmo sbucare, improvvisamente, dal compound militare col sasso in mano. Il discolo aveva due riccioletti biondi che scendevano sulle tempie, vestiva pantaloni neri e camicetta bianca come gli ortodossi, in mano teneva una cartella nera. Rallentammo al minimo l’andatura rimanendo sorpresi da questo inusuale attacco. Contemporaneamente, il ragazzino sparì dietro una macchina per qualche secondo, poi incoraggiato forse dal fatto che non reagivamo, lanciò altre pietre. II piccolo settler biondo, dal faccino angelico che contrastava con i suoi gesti poco “ortodossi”, già indottrinato, aveva idee chiare: contrastare l’operato degli osservatori “impiccioni”. Poi lo vedemmo correre verso la sua salvezza, lontano dai suoi nemici, verso Beit Hadassa. Lo lasciammo andare divertiti, dispiaciuta solo di non aver avuto la prontezza di immortalarlo sulla mia videocamera. A ridosso delle costruzioni arabe, lungo via Al Shuhada, c’è la collina di Tel Rumeida. Sullo stesso lato iniziano, dopo qualche metro, le mura del grande cimitero islamico, mentre dalla parte opposta, dopo il compound militare, continuano le vecchie costruzioni arabe ancora abitate e dove c’è anche un bagno turco e qualche negozio di lane e teli di plastica e sul dietro delle abitazioni c’è il Suq. La via Al Shuhada termina a CP 26, piazza Gross.
Tre sono i punti critici che danno sulla via Al Shuhada: lron Gate, Golden Gate e Chicken Gate (Cancello di Ferro, Cancello d’Oro e Cancello dei Polli), così chiamavamo questi luoghi “caldi”. L’Iron Gate è una grande rete metallica alta quasi quanto la palazzina di Beit Hadassa, posta a proteggere il settlement da eventuali lanci di pietre da parte dei palestinesi dalla via Vecchia Al Shallalah. Un piccolo cancello di ferro, quasi sempre chiuso, permette ai miliari, che fanno la guardia, di uscire o entrare da quel lato, ma non per i coloni che si troverebbero ‘a tu per tu’ con i palestinesi del mercatino. Anche se in Zona H2, ci sono alcune vie che i coloni non praticano per security reasons. La via Vecchia Al Shallalah è piena di botteghe palestinesi e lungo la via un mercato di bancarelle vende di tutto, dalla frutta e verdura alle sementi, da utensili per casa ad abiti, riparano scarpe, arnesi, la sopravvivenza di molti arabi. Questo mercatino spesso non c’era a causa dei continui coprifuochi oppure perché gli israeliani spesso lo proibivano. Qualche Palestinese coraggioso però, dopo qualche tempo di proibizioni, cominciava a ricollocare la sua bancarella con la mercanzia, lo seguivano altri impavidi e giorno dopo giorno, lungo la strada di questa vecchia via, per altro corta e stretta, si andava riammassando di misere bancarelle che si piazzavano sempre più vicine all’Iron Gate. Allora i militari, sospettosi, con una ruspa rovesciavano tutto distruggendo ogni cosa, tra le urla degli arabi, impotenti a tanto scempio. Un pomeriggio ci fu la segnalazione di una borsa nera abbandonata in via Nuova Al Shallalah, la parallela di via Vecchia Al Shallalah. Il punto in cui si trovava la borsa sospetta era molto vicino all’Iron Gate. I militari allontanarono tutti dal luogo e anch’io dovetti retrocedere, così non vidi quando la borsa fu aperta con un robot. Fortunatamente dentro era vuota, dico fortunatamente, perché se dentro ci fosse stato un ordigno, gli hebroniti della Zona H2 avrebbero pagato a caro prezzo questo ardire. Ci sarebbero stati arresti, ritorsioni, coprifuoco, chiusura dei negozi e della Moschea.
Il viaggio
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2000Periodo storico
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