Mestieri
medicoLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
Croazia, LibiaData di partenza
1946Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Vladimiro Pahor nasce a Savogna d’Isogno nel 1923, è un italiano di etnia slovena: tanto basta per essere perseguitati durante il fascismo .
Noi sloveni del territorio etnicamente pulito eravamo privi di qualsiasi diritto e perseguitati in tutti i modi possibili. Della politica italiana di pulizia etnica facevano parte due punti: tasse molto alte, alti interessi sui mutui da una parte; prezzi molto bassi dei prodotti, le scuole scadenti e manchevole servizio sanitario dall’altra. Della politica di de-nazionalizzazione faceva parte anche la persecuzione degli intellettuali. Somministravano con facilità e sadicità l’olio di ricino a chiunque manifestasse in modo scoperto di essere sloveno. Nel 1937 al dirigente di coro Lojze Bratuz fecero ingoiare olio di ricino ed olio di macchina fino a farlo morire con atroci dolori solo perchè aveva organizzato un concerto di canzoni slovene in chiesa per Natale. Il comportamento arrogante degli italiani verso gli sloveni sí percepiva dappertutto. In questo eccellevano i fascisti. Tutti gli italiani ci trattavano come gente di terza classe. Appartenevamo ad un ceto inferiore che bisognava italianizzare il più presto possibile, cambiando etnicamente il territorio. Tale comportamento provocava una reazione da parte nostra. Nel nostro giro si mormorava che uno sloveno aveva deciso di diventare kamikaze. Quando Benito Mussolini, nel 1938, andò a Caporetto in occasione del ventennio della vittoria di Vittorio Veneto per inaugurare un ossario dei caduti della prima guerra mondiale, da Caporetto sarebbe dovuto andare non fino al fiume Piave, ma direttamente in Paradiso. Questo kamikaze, imbottito di dinamite, avrebbe dovuto, infatti, abbracciare Mussolini e accompagnarlo in Paradiso. Mentre attendeva l’arrivo del duce e studiava il modo più opportuno per avvicinarlo, osservò i bambini figli della lupa che, con i fiori in mano, cantavano le lodi del loro duce. Gli scoppiò un corto circuito nel cervello. Questi bambini avrebbero accompagnato, come angeli, lui e Mussolini in Paradiso. Non se la sentì di portarli con sé, e non abbracciò più Mussolini.
Per il regime fascista il più grande ostacolo alla de-nazionalizzazione era costituito dagli intellettuali. Questi dovevano essere allontanati mandandoli in carcere, al confine, o rendendo loro la vita così difficile da costringerli ad emigrare. Così, sul territorio restavano in gran parte solo contadini e operai. I maestri italiani insegnavano ben poco nelle scuole elementari cosicché, con così poca istruzione, diventava piuttosto difficile iscriversi ad una scuola superiore. Inoltre, le scuole superiori e l’università erano troppo costose, e accessibili solo ad un gruppo molto ristretto di studenti sloveni. Questa situazione creava rabbia e odio verso gli italiani.
Questo lo sentivo fin da bambino perché vivevo in una situazione conflittuale con tanti italiani. Guardavamo con disprezzo coloro che si inchinavano all’autorità fascista. Alcuni intellettuali sloveni “sopravvissuti” invitavano noi studenti a casa loro a prendere the, limonata, frutta candita e dolci una volta alla settimana. Cercavano di insegnarci la lingua, la cultura e la storia degli sloveni, ci raccontavano dei costumi e del modo di vivere dei nostri antenati, ci presentavano scrittori e poeti sloveni, ci prestavano dei libri in lingua slovena. In breve: cercavano di salvarci dalla italianizzazione e preservare la nostra identità. Tali riunioni erano segrete e, per quel tempo, pericolose. Io invitavo ì giovani del mio paese e dei paesi vicini a riunioni sempre con la finalità di conservare e coltivare la lingua slovena. Ci si riuniva nelle case, nel bosco, sulla riva dell’Isonzo. Le riunioni erano illegali perché qualsiasi assembramento o manifestazione era severamente proibito. Erano permesse solo le processioni religiose e le adunate fasciste. Queste riunioni avevano un successo impensabile. Ognuno portava qualcosa, dolci, bibite, qualche salsiccia, pane con i fichi, mortadella, uova arance, mandarini e perfino qualche cachi, che allora erano una rarità. Ognuno prendeva qualcosa da casa senza mai dire dove andava. Quelli che avevano qualche strumento e lo sapevano suonare lo portavano: fisarmonica, chitarra, mandolino, violino. Nonostante tutto il controllo poliziesco e lo spionaggio siamo sempre riusciti a non farci sorprendere. Nessuno ha mai tradito. Si cantava, si ballava, si leggevano brani di poesie slovene ma si discuteva anche. Io li informavo di quanto avevo saputo nelle nostre riunioni studentesche, li stimolavo a coltivare l’orgoglio e la consapevolezza del proprio valore, a non odiare gli italiani perché con l’odio si dava loro troppo onore. Era importante convincersi che anche noi avevamo la nostra storia ed eravamo portatori della cultura che ci avevano tramandato i nostri antenati, perciò dovevamo continuare ad apprezzarla e coltivarla, prima di tutto tra di noi. Il nostro motto era “niente complessi di inferiorità, niente servilismi”. Dopo l’invasione della Jugoslavia da parte dell’Italia, le argomentazioni all’interno delle nostre riunioni cambiarono: se prima si parlava della nostra conservazione etnica, poi si cominciò a ipotizzare l’eventualità, prima utopica, di una possibile unione del litorale sloveno, dall’Italia alla Jugoslavia. Alle riunioni compariva altra gente, che non erano studenti. Si parlava di organizzare la raccolta di cibo e vestiario per i prigionieri del campo di concentramento di Gonars, che l’Italia aveva organizzato per i sovversivi sloveni. L’Italia aveva occupato parte della Slovenia formando la provincia di Lubiana. Ha fatto subito una grande pulizia della gente che doveva imprigionare e spediva nei vari campi di concentramento. Le autorità civili e militari, non solo fasciste, nella terminologia ufficiale, forti della loro fu-millenaria cultura, riferendosi alla gente slovena, usavano chiamarli “allogeni”. Gente di infima classe. Circolavano varie notizie: si diceva che parte dell’armata jugoslava si fosse ribellata all’occupazione tedesca e si fosse ritirata nei boschi. Lí chiamavano cetníchi (guerriglieri), li comandava il generale Mihajlovic. La stampa italiana dí questo non ne parlava, e neppure la radio. Per il resto, a Savogna d’Isonzo, allora, c’erano due apparecchi radio ed un telefono: le notizie andavano di bocca in bocca, sottovoce. Allora, nelle nostre riunioni a Gorizia, si decise di stampare un foglio per poter informare di quanto accadeva e dei programmi della nuova organizzazione. Realizzare questa idea non era semplice: chi, come e dove poterlo fare? Si decise di stamparlo in ciclostile. Bisognava comprare la macchina da scrivere, il ciclostile, le matrici, la carta e l’inchiostro, tutto in modo da non destare sospetti durante l’acquisto. Dopo lunghe discussioni su dove stampare e chi l’avrebbe realizzato, si decise di incaricare me, con la motivazione o scusa, che nel paese avrei potuto camuffarmi e sfuggire al controllo della polizia più facilmente. Dopo circa quattordici giorni, fine maggio del ’41, mi portarono tutto l’occorrente per poter iniziare il lavoro. Portai il tutto nel campanile della chiesa di Savogna d’Isonzo, di notte, con molta fatica e con varie acrobazie. Mi sistemai nella stanzetta che si trova proprio sopra le campane, sulla punta del campanile. Non dissi a nessuno dove mi ero sistemato ed ero quasi certo che nessuno l’avrebbe saputo. E, difatti, nessuno l’ha mai saputo, né allora, né durante il mio arresto, né dopo. Entravo ed uscivo soltanto di notte o nelle ore prima dell’alba, periodo solitamente con meno traffico. La cameretta aveva quattro feritoie, che di notte io coprivo per nascondere il bagliore delle candele alla luce delle quali stampavo. Ogni tanto spegnevo le candele e arieggiavo l’ambiente soffocante e caldo. Non era affatto piacevole quando le campane battevano le ore o quando il sagrestano invitava alla messa con le campane. Mi tappavo le orecchie, mi scuoteva tutto il corpo, tanto da farmi male. Non era piacevole nemmeno quando, durante il temporale, qualche fulmine colpiva il campanile. Allora avevo veramente paura.
Il viaggio
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Croazia, LibiaData di partenza
1946Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Gli altri racconti di Vladimiro Pahor
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