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2004Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Il 28 dicembre 2004 è una giornata davvero intensa per Patrizia Di Luca, trascorsa tra Israele e Palestina, soprattutto a Ramallah dove ha occasione di conoscere uno spaccato della vita palestinese che la induce a riflettere in modo profondo sulla difficile quotidianità che devono affrontare gli abitanti di quei luoghi, soprattutto i giovani.
28 dicembre 2004
Sera tardi, Star hotel. Sono stanchissima, ma voglio scrivere qualcosa di questa giornata così intensa. Alle 10, grazie all’autorevolezza e alla simpatia di Padre Ibrahim, abbiamo potuto assistere alla pulizia della Basilica della Natività, compito che, il 28 dicembre di ogni anno, i Francescani, gli Ortodossi e gli Armeni svolgono insieme. Frati e sacerdoti di tutte le età, con mascherine per proteggersi dalla polvere e grandi scope di saggina, scopettoni, lunghi piumini…nelle nicchie delle finestre lavorano i più giovani e agili, angeli veri sorridenti e allegri. L’aria è resa densa dalla polvere rimossa e si riempie di un forte odore di petrolio versato per pulire il pavimento. L’operosità di tutti questi religiosi ricorda i quadri di Norberto, nere piccole formiche laboriose, ancora capaci di collaborare nonostante i tanti contrasti.
Partiamo poi per Ramallah. Il nostro amico Kamal e suo figlio Khaled ci accompagnano. I Palestinesi hanno vita difficile, ogni loro gesto quotidiano perde spontaneità e richiede programmazione, diventando una procedura complessa dall’esito imprevedibile. Lungo il tragitto mi raccontano un po’ della loro storia. “Se perdi un gioiello puoi riacquistarlo, se perdi una donna puoi trovarne un’altra, anche se perdi un figlio puoi generarne un altro, ma se perdi la tua patria, perdi tutto. I corpi dei miei nonni, dei miei genitori, dei miei familiari ed amici sono sepolti in questa terra: questa terra è fatta con il mio popolo”. Kamal mi spiega che quasi tutti i gruppi politici accettano la lotta armata come forma di resistenza, ma, al contrario delle formazioni estremiste, molti non vogliono coinvolgere la popolazione civile israeliana. Preoccupato, mi racconta però che molti Palestinesi sono ormai così profondamente delusi ed amareggiati da non aver più speranza nella pace e si rifugiano nella disperazione del terrorismo. Alle ultime elezioni comunali Hamas ha preso la maggioranza dei voti in alcuni villaggi vicino a Betlemme.
A Ramallah siamo stati ricevuti da alcuni responsabili del Ministero al Turismo; il Vice-ministro ci parla del Muro, tutti parlano del Muro, alto fino a 8 metri, che Israele sta costruendo e ricorda le parole di Giovanni Paolo II: “i popoli hanno bisogno di ponti, non di muri”.
Per me è strano sentire un musulmano citare il Papa ed ancora una volta sperimento che, quando ci si sente compresi nella propria sofferenza, non si fanno distinzioni, né si giudica… pur nella diversità ci si sente accolti e si accoglie.
Visitiamo la Muqqada e la tomba di Arafat, un padre per tutti i Palestinesi – anche per quelli che non sono di Al Fatah e appartengono ad altri partiti politici -, l’uomo che ha dato dignità di popolo ai diversi gruppi e che ha trasformato in progetto politico un sogno. I militari di guardia sono immobili e silenziosi. Entriamo nello spazio del Quartier Generale, gli edifici distrutti dai bombardamenti aerei del 2000. Tra le macerie, un tappeto; in terra, ormai coperta di polvere, la cannuccia di un narghilè… la guerra porta distruzione e cancella le normali abitudini della vita quotidiana.
A pranzo siamo ospiti di Lina, un’italiana – suora laica melchita – arrivata nel 1962 quando ancora Ramallah era territorio giordano. Ha insegnato per tanti anni nelle scuole materne, ora segue alcuni progetti sull’istruzione e sul lavoro femminile. Anche lei ci racconta la fatica quotidiana di questo popolo, i soprusi, le umiliazioni, le irragionevoli ingiustizie; ci parla degli strumenti legislativi inventati dallo Stato israeliano per negare fondamentali libertà. Parliamo del senso di colpa che tutti proviamo nei confronti degli Ebrei e di come siano proprio i Palestinesi a subirne le conseguenze; così dopo essere stati gli aguzzini del popolo ebraico, diventiamo complici silenziosi dei crimini perpetrati contro il popolo palestinese. La violenza ha sempre due responsabili: chi la compie e chi, osservando e tacendo, la permette. Ancora una volta non abbiamo il coraggio di intervenire a difendere i perseguitati, oggi come ieri rifuggiamo le responsabilità che la Storia ci impone, ignoriamo la sofferenza con la quale ci interpella. Oggi come ieri fingiamo di non sapere dell’esistenza dei campi…campi di concentramento, campi profughi…
Passeggiamo per il centro della città. Ramallah è piena di voci e manifesti elettorali. Sede dell’Autorità Nazionale Palestinese, non ancora uno Stato, ma con un’incrollabile speranza di diventarlo presto.
I Palestinesi non si presentano uniti a queste elezioni; Abu Mazen è il candidato favorito, forse non il più amato, ma quello scelto con ragionevole consapevolezza, politico pragmatico che dovrà contenere entro i confini della diplomazia la rabbia e la passione del suo popolo, per iniziare un dialogo nuovo con Israele. Abu Mazen ha anche il compito di dare una forma strutturata ad un’organizzazione basata più sulla resistenza che sulla politica moderna e moderata degli accordi e dei trattati. Le persone che incontriamo, quasi tutti uomini, sono gentili e ospitali, sorridono, hanno voglia di parlare. Sui volti di quasi tutti c’è la voglia di farsi conoscere e mostrarsi nella quotidianità, fuori dagli stereotipi che la nostra informazione propone: arabi dunque terroristi, intolleranti… Insieme a Sabrina e Doralisa entriamo in un bar dove non ci sono donne. I giovani camerieri ci sorridono, noi scattiamo alcune foto, ci offrono da bere; nel locale alcuni uomini fumano aspirando i narghilè, altri giocano a carte… Dopo un’iniziale “diffidenza” —solitamente sperimentata anche da noi italiani quando cerchiamo di capire se l’attenzione dei turisti è autentico interesse di conoscere il nostro Paese o se è invece solo ricerca di conferme a pregiudizi e immagini precostituite – tutti si lasciano fotografare e, nella più totale incomprensione linguistica, riusciamo a comunicare con sorrisi e gesti di reciproca gentilezza. Nessuna mancanza di rispetto verso noi che siamo donne, nessun comportamento che possa metterci a disagio.
Per uscire da Ramallh, fila ad un altro cechk-point. Le macchine sono incolonnate sia nella corsia d’entrata che in quella d’uscita. Un’autoambulanza palestinese con le sirene accese rimane bloccata un quarto d’ora dietro il nostro pulmino, nessun militare ferma il traffico per controllarla e poi lasciarla passare prima degli altri mezzi. Registro questo suono lacerante, e mi rimarrà impresso nella mente come la disperata e inascoltata richiesta di aiuto di un popolo privato anche del rispetto verso il proprio dolore.
La strada è stretta tra il Muro, che anche qui è alto 8 metri, ed una serie di negozi di accessori e ricambi per auto, rallegrati all’esterno da lampadine colorate, forse anche questo un modo per rivendicare il diritto a una vita normale. Mentre aspettiamo, scendiamo a fotografare; un ragazzino cerca di vendermi un deodorante per auto, una specie di Arbre Magic come quelli offerti ai nostri semafori, non lo compero, non ho con me degli shekel, ma gli porgo 10 centesimi di euro – “Come souvenir” – gli dico.
Mi segue fino al pulmino e mi restituisce la monetina, in arabo spiega a Kamal che “non vuole elemosina”. Questo gesto mi colpisce molto, mi dispiace la mia leggerezza; penso a quale dei nostri figli e nipoti avrebbe rifiutato una moneta nuova da usare come un gioco e capisco che questi bambini sono stati veramente derubati dell’ingenuità dell’infanzia e, ancora piccoli, devono difendersi dalle possibili offese ed affermare il valore della propria dignità.
Arriviamo al blocco, finalmente l’autoambulanza viene fatta passare. Cerco di immaginarmi i soldati che con tanta durezza non hanno ascoltato il suono della sirena, poi li vedo: un ragazzo ed una ragazza giovanissimi, elmetto, giubbotti antiproiettile, mitra alle mani. Controllano i nostri passaporti, il ragazzo chiede a chi appartiene il passaporto sammarinese, mi guarda e con un sorriso, in inglese, mi dice: “Vi abbiamo battuto 8 a O”. Poi controllano l’interno del pulmino, per vedere se nascondiamo nessuno. Ripartiamo, sono senza parole. Forse anche questo soldato israeliano è stato privato dell’ingenuità della sua giovinezza, se già si trova armato a un posto di blocco, addestrato ad ignorare i diritti e i sentimenti degli altri, così giovane da eseguire controlli armati e nello stesso tempo pensare al calcio.
Questi continui controlli mettono tensione. Qui la guerra si è trasformata in vita quotidiana e gli uomini, le donne, i bambini e le bambine di questi due popoli respirano ogni giorno questo conflitto che è diventato il contesto della loro esistenza. Hanno imparato a convivere con la paura e con la rabbia, con la superbia di chi si ritiene sempre dalla parte della ragione, con la sofferenza… Desiderio di vendetta e desiderio di giustizia a volte si confondono…
Durante gli spostamenti Kamal mi racconta del suo popolo. Sento la solidità della loro speranza e della perseveranza. “Non ci stancheremo mai di volere la nostra Patria. Forse non la vedrà mio figlio, ma il figlio di mio figlio… Noi vediamo uno spiraglio di luce alla fine di questo lunghissimo tunnel, e aspetteremo.” Questa attesa forte e fiduciosa mi confonde. Vengo da un tempo in cui è importante raggiungere subito gli obiettivi, è importante la velocità, un tempo in cui non abbiamo più il coraggio di progettare un futuro che non vedremo, un tempo che vuole insieme semina e raccolta.
In questo viaggio sperimento veramente l’incontro con una cultura diversa dalla mia, che mi insegna nuovi significati… l’attesa, la speranza, l’accoglienza — quanti the abbiamo bevuto in questi giorni? – , la capacità di sopportare la frustrazione, che a volte diventa dirompente rabbia, anche odio, quasi mai disperazione sterile di futuro.
Siamo invitati a cena da Kamal e da sua moglie Lucia in un ristorante di Betlemme, è una cena in onore di Gianni e di Cinzia, che è a San Marino, ma è presente nei loro e nei nostri pensieri. Kamal e Lucia sono molto gentili, mi sento onorata dalla loro ospitalità, sincera dimostrazione del loro affetto.
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