Mestieri
operaioLivello di scolarizzazione
frequenza universitariaPaesi di emigrazione
SveziaData di partenza
1964Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Temi
ritornoTemi
ritornoGli ultimi ricordi dell’esperienza migratoria di un italiano che ha vissuto buona parte degli anni ’60 in Svezia prima di fare ritorno nel suo paese natale.
Per tutti gli anni in cui ho vissuto all’estero, due idee fisse mi ha indotto a fare ciò che ho fatto. La prima era il pensiero dei miei genitori a cui dovevo raccontare una realtà molto migliore di quella nella quale mi trovavo. La malattia di mia madre si era aggravata e mio padre era andato anticipatamente in pensione per riuscire ad assisterla meglio. Velatamente, mi veniva sussurrato in ogni lettera che le loro preoccupazioni per me erano causa di apprensione e di conseguente peggioramento del loro stato di salute fisica e morale. La cosa non era espressa in termini espliciti, ma era invisibilmente presente fra le parole delle lettere di mio padre. Per alleviare il peso della lontananza avevamo acquistato ognuno un proprio registratore Geloso e ci scambiavamo almeno un nastro al mese. Loro ci incidevano poche parole sull’andazzo della loro vita e registravano spesso il notiziario del Friuli Venezia Giulia delle 12 e 30. La cosa mi era molto gradita, ma ne traspariva anche una vita senza futuro e speranza, perchè l’unica speranza era di avere il figlio unico di madre ammalata accanto a sè. Io enfatizzavo le cose positive, come il superamento di un esame universitario oppure gli ottimi amici che mi circondavano o un buon lavoro che stavo svolgendo in quel momento. Per una famiglia vecchio stile, come è quella di tutti i genitori, sapere che avevo una vita sentimentale occasionale sarebbe stato un colpo mortale. Così mi inventavo relazioni stabili e felici con futuri possibili suoceri che mi volevano un bene “della madonna”, come si dice.
Per quello che riguarda gli amici, feci una cosa che li sbaragliò completamente. Acquistai, per poche lire, una vecchia Pontillac rossa decapotabile, lunga da quì a laggiù come quella di Isidoro Selva. Ci caricai sopra una mia amica bionda esplosiva e venni in vacanza in Italia. Spesi più soldi di benzina per il viaggio che per l’acquisto dell’automobile: faceva qualche chilometro per litro. Fu un mese memorabile di vacanza ad Udine. Agli incroci mi davano la precedenza anche se non ne avevo il diritto. Erano gli anni nei quali si proiettavano film come “Il sorpasso” o “Il successo”, che terminavano sì male per il protagonista, ma che indicavano una mentalità di arrivismo veloce che attecchiva nella testa dei giovani. I giovani non vi vedevano il finale amaro, ma solamente la bella ed invidiata vita che lo precedeva.
Ricordando questo episodio, adesso non riesco più ad essere critico nei confronti del conformismo dei giovani d’oggi anche se lo considero il peggiore dei mali. La fine della Pontillac fu tragicomico. Superato il confine fra Italia ed Austria, sulla strada del ritorno, la macchina si fermò di colpo. Le riparazioni mi sarebbero costate una fortuna che non avevo e certe parti di ricambio dovevano essere ordinate negli Stati Uniti. Abbandonammo la macchina presso uno sfasciacarrozze, prendemmo le valigie, ci caricammo sulle spalle i salami e la forma di formaggio che avevo acquistato e tornammo a casa in treno. Di questa fine ingloriosa gli amici non seppero mai nulla e di questo non me ne pento.
Qualche amico venne in seguito a trovarmi in Svezia e, anche grazie alle cene con persone dell’altro sesso che organizzavo, si convinsero che la scelta che avevo fatto di emigrare in quel paese era stata vincente. Tutti gli esseri umani vivono, prima o poi, situazioni ipocrite come queste appena descritte. Per gli emigranti esistono, però, altre ipocrisie di fondo. La prima è quella del “lavoro italiano all’estero”, che dovrebbe nobilitare la patria mentre si tratta di una pura e semplice espulsione. La seconda è la convinzione che è stata infusa nella testa di ogni emigrante (o della quale egli si è autoconvito per dare dignità alla propria esistenza) di poter tornare a casa quando lo voglia. Questo ti da forza per continuare a fare il minatore o il muratore o qualsiasi altro umile mestiere. Non viene mai in mente a nessuno di loro, però, cosa succederebbe se tutti i 6 milioni di italiani emigrati dessero seguito a questa convinzione. In quegli anni l’emigrazione era sempre di livello operaio, al più come operaio qualificato. Oggi si chiama “fuga dei cervelli” per dare nobiltà all’atto, ma si tratta invece di emigrazione vecchio stile senza parafrasi. Forse molti cadranno nel tranello della canzone di Nicola Paone quando diceva che “l’Italia è piccolina e c’è gente in quantità”, senza considerare che solo il lavoro arricchisce una nazione e che quindi chi ne viene arricchito sono i paesi di immigrazione. I quali paesi si ritrovano forza lavoro già svezzata, istruita e vaccinata che li arricchisce sempre di più.
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