Mestieri
giornalistaLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
Repubblica CecaData di partenza
1953Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)Paola descrive la sua vita a Praga negli anni ’50: una vita molto particolare, segnata dal motivo per cui si era recata oltre la “cortina di ferro” insieme al marito Sergio, ovvero lavorare per una radio clandestina su mandato del Pci. E quello che accade nel “Rozhlas”, il palazzo della radio, e durante il lavoro ricoprono i capitoli più importanti del suo racconto.
Noi due non riuscivamo a convincerci che le cose stessero proprio così come ce le raccontavano. Pensammo che forse i compagni avevano esagerato. Erano fuori dall’Italia da molti anni e non avevano rapporti diretti col Partito per avere informazioni sicure. A Praga non potevano avere notizie certe, perché non avevano rapporti con la popolazione, se non quelli indispensabili. La loro vita era molto isolata dalla gente. Da clandestini non frequentavano nessuno. Infatti, sapeva parlare la lingua soltanto chi si era sposato, come Carlo, o aveva fidanzate ceche. Avevamo notato che la sera ogni uomo solo si ritirava in camera con un’amica che al mattino scompariva. Ad ogni modo, noi due pensavamo che quello che succedeva in Cecoslovacchia non poteva coinvolgerci più di tanto. Loro, i cecoslovacchi, erano così, quella era casa loro, quello il loro stato. Noi no, il PCI era un partito democratico e il nostro socialismo non sarebbe mai stato una dittatura. Gli errori compiuti nei Paesi dell’Est non si sarebbero ripetuti nell’occidente. Non in Italia. I Partiti comunisti dell’Ovest non erano come i Partiti comunisti dell’Est. C’era un’enorme differenza. Noi eravamo diversi. Per carità! Noi mai e poi mai avremmo compiuto i loro errori. Noi eravamo per la vera democrazia e per la libertà. E poi che ne sapevamo per dare giudizi così drastici? A noi poco interessava cosa succedeva in Cecoslovacchia. Non era l’esempio per l’Italia. A noi interessava cambiare le cose in meglio nel nostro Paese. Per anni ci siamo disperatamente attaccati a questo convincimento. Informammo i nostri in Italia che dovevano indirizzare le lettere a Postovni Schranka 871, Praha 3, un fermo posta. Qualcuno andava a ritirare la posta e ce la consegnava. Il giorno successivo Carlo ci accompagnò in un appartamento del centro per presentarci ai dirigenti della comunità italiana. Erano tre o quattro. Ci fecero molte domande e poi uno mi disse: “Tu, compagna, non puoi lavorare. Prima di tutto bisogna che tu vada in ospedale per fare degli esami. I medici diranno se ti devi ricoverare.” Io non capivo cosa mi stesse dicendo. Discutemmo e poi venne fuori la verità. Carlo aveva parlato di noi e aveva riferito che io, a suo parere, ero malata. Secondo loro dovevo entrare in ospedale per essere curata, poi si sarebbe parlato di lavoro. Ero magra, ma non pensavo di sembrare malata. Quando ci riferirono cosa aveva detto Carlo che si era ben guardato dall’informarci, ci mettemmo a ridere: “Ma no, non è così! E’ che ho fame. Negli ultimi mesi abbiamo mangiato poco. Qui tutto andrà bene.” Era vero. Ero alta un metro e sessantacinque e pesavo 46 chili e mio marito meno di 65 ed era alto oltre un metro e 72. Per fortuna ci credettero. Non più ospedale per me, ma grandi piatti di carne, si raccomandarono. Ci spiegarono che noi della radio avremmo avuto rapporti soltanto con Tognotti che tutti chiamavano Togni, un bolognese dalla faccia da contadino e che aveva la cattiva abitudine di sistemarsi sempre i pantaloni. Era il responsabile di Oggi in Italia e la sua compagna era ceca, redattrice dell’emittente in lingua italiana. Scoprii dopo poco che Togni correggeva i nostri scritti e io mi ribellai Chi lo autorizzava? Poteva essere il responsabile politico, ma non il direttore di redazione, non aveva nessuna competenza. Non accettai mai questo suo ruolo, anche perché non aveva nessuna cultura. Ma i miei pezzi non sarebbero mai andati in onda senza la sua autorizzazione. Fui costretta, come tutti, ad accettare le sue censure, a volte veramente stupide, umilianti e prive di senso. Ci dissero che l’orario di lavoro era a giorni alterni dalle quindici alle venti e dalle quindici a mezzanotte, compresa la domenica, Natale e Capodanno. C’erano turni al mattino per ascoltare i notiziari dall’Italia. Avremmo ricevuto un ottimo stipendio. Dovevamo soltanto versare una somma per la mensa e nient’altro, niente per l’affitto, niente per le utenze. L’assistenza sanitaria era gratuita. Ci fecero un predicozzo sull’importanza del nostro lavoro, la necessità di massima sicurezza. Non dovevamo rilevare a nessuno le nostre vere generalità neanche ai compagni di lavoro, fare attenzione a non farci fotografare, non partecipare ad assembramenti. Era ovvio che non dovevamo avere nessun rapporto con l’Ambasciata italiana a Praga. I nostri familiari avrebbero potuto scriverci a un fermo posta unico per tutti, usando il nuovo nome. La cosa diede adito a strane interpretazioni e sospetti da parte dei miei: perché avevo cambiato nome? Qual’era in verità il mio lavoro? Così nacque il dubbio che lavorassimo per il KGB, per far cosa, non si sa. Da parte mia mi resi conto di essere entrata nella clandestinità. Non mi preoccupai per niente. Ero contenta di essere equiparata alle staffette partigiane, anche se mi rendevo conto che la situazione era ben diversa. Fin dal primo giorno mi misi a mangiare di tutto, come già avevo fatto a Vienna. Piano piano il mio corpo si trasformò e sparirono le preoccupazioni di Togni: non ero malata, avevo fame. Quale clandestinità era la mia? Non avevo armi, non avevo nemici, non dovevo spiare nessuno e non sapevo nemmeno come avrei potuto combattere. Ma qualcosa di importante lo stavo facendo. Per il PCI. Per il nostro Paese. Mi chiedevo, quale altro modo avremmo avuto per parlare alla gente e dire la verità, farla ragionare? Quale altra possibilità avevamo se non questa che i cecoslovacchi ci offrivano gratuitamente, per cambiare le cose in Italia? Noi fornivamo una informazione corretta contro le bugie imbastite dalla radio di Stato in mano alla DC e al governo. Entravamo nelle case. Sapevamo che in alcune zone delle campagne, specialmente nel meridione, venivano organizzati gruppi di ascolto. Noi da Praga eravamo l’informazione alternativa, l’informazione vera che parlava anche delle lotte di operai e contadini, notizie che la radio nazionale nascondeva. Ricordo che per giorni e giorni parlammo dí scioperi dei netturbini di Caltanissetta. Scoprii in seguito che erano soltanto 7.
La rozhlas, il palazzo della radio, era come ora, vicino a Vàzlawky Nàmiesty (piazza san Venceslao), alle spalle del Museo Nazionale, in Vynogràska ulize, collina di Vynogràd. E’ un edificio grigio, a molti piani, con all’interno ascensori chiamati paternostro, non so il perché, di quelli senza porte né bottoniera. Scivolavano lentamente senza sosta, su e giù. Ognuno entrava e scendeva quando voleva. Il palazzo aveva (ha) grandi finestre doppie che si aprivano solo dall’alto. I tappeti erano ovunque sopra le moquettes verde scuro. Alle pareti la fotografia del presidente del momento, Novòtny. Il palazzo oltre alla radio nazionale, ospitava anche le sezioni regionali e internazionali. Le emittenti governative trasmettevano in ogni lingua dell’Occidente, anche in arabo e in cinese per diffondere nel mondo le notizie sulla Cecoslovacchia. Il terzo piano era riservato alle sezioni per l’estero. In ogni redazione c’erano persone provenienti dai vari Paesi, dall’Inghilterra alla Germania alla Finlandia e anche dall’URSS. Era la risposta dei Paesi socialisti all’emittente radio Europa libera trasmessa dalla Germania ovest e basata su un anticomunismo viscerale e becero, intriso di bugie e menzogne. C’erano però due sezioni per due emittenti particolari, quella del Partito Comunista Francese, Ce soir en France e Oggi in Italia del Partito Comunista Italiano. Erano autonome, a differenza delle altre, non controllate dai cecoslovacchi. Dipendevano dai rispettivi partiti e trattavano le notizie del Paese ospitante, come una qualsiasi altra notizia estera. Perché noi eravamo una radio italiana a tutti gli effetti e trasmettevamo notizie italiane. Altra cosa era la radio ceca in italiano e francese, fatta per la propaganda ceca. Le trasmissioni di Ce soir en France iniziavano al suono della Marseillaise, noi invece con le note di va pensiero sull’ali dorate. Non ho mai saputo chi lo abbia deciso. Le redazioni straniere, anche la nostra, si trovavano al secondo piano. Gli studi insonorizzati per la messa in onda, erano al quinto ed erano stabiliti turni molto rigidi Tecnici cechi con vaga conoscenza dell’italiano, si alternavano nella cabina di regia. Regista era sempre un italiano che parlava in ceco. Nella redazione governativa in lingua italiana c’erano ex partigiani. Ricordo un uomo intelligente e colto che si chiamava Pampiglione e che con il professor Radvanovsky, aveva scritto un vocabolario di termini tecnici cesko-italsky/italsko-cesky. Firmò il vocabolario come dottor Emilio Pampiglione. Anche lui aveva messo su famiglia a Praga. C’era un milanese di nome Boffi ( non ho mai conosciuto il suo vero nome) che aveva sposato una partigiana jugoslava. Si diceva che per molti mesi fosse riuscita a tenere nascosta la sua identità agli altri compagni. In effetti aveva un aspetto mascolino ed anche la voce non sembrava femminile Avevano tre figli. Seppi molti anni dopo che Boffi aveva fatto parte del gruppo Volante rossa che continuò a Milano a uccidere i fascisti, come se la guerra non fosse finita. Il suo amico di avventure, Bianchi, era il nostro regista ed aveva sposato una staffetta modenese che si faceva chiamare Stella. L’altro regista si chiamava Martoni, anche lui di un paese della provincia bolognese. Ricordo anche che c’era un bel ragazzo di 24 anni, alto e robusto, dalla faccia aperta e rosata. Un omone, insomma. Aveva fatto il partigiano nelle Langhe con Beppe Fenoglio. Sembrava il ritratto della salute. Restò poco con noi. Era venuto a Praga nella speranza di poter essere operato. Aveva un proiettile conficcato vicino al cuore e nessuno glielo voleva togliere. Anche a Praga gli dissero di no. Viveva nella speranza che quel proiettile non si muovesse. Un altro modenese si chiamava Zerbini, forse era il più vecchio di tutti. Quando la sera smetteva il turno, se ne andava canticchiando: andiamo finché il lupo é lontano, tutte le sere così! Mi venne a trovare un giorno quando vivevo a Bologna. Ritornato a Modena, per vivere faceva da tramite fra le lavoranti a domicilio di Carpi e i negozianti di maglieria. Poi, non l’ho più rivisto, né io l’ho cercato. Era di un pessimismo cronico, senza nessuna speranza. Non conosco i loro veri nomi neanche oggi. Non conosco la loro storia né per quale motivo fossero Praga. Non ho mai fatto domande e non mi interessava sapere. Altri hanno scritto di noi facendo finta di conoscere tutto.
Il viaggio
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