Mestieri
operaioLivello di scolarizzazione
licenza elementarePaesi di emigrazione
LibiaData di partenza
1939Periodo storico
Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)La vita in colonia per i figli degli emigrati italiani in Libia fatti rimpatriare alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Una catena di privazioni, di violenze fisiche e psicologiche, imposte dal regime fascista a bambini fragili e spaventati, privati dell’amore e della presenza dei genitori. Per il piccolo Pietro Renzo, l’unica consolazione è la vicinanza del fratello maggiore Bruno, che cerca in ogni modo possibile di prendersi cura di lui.
La colonia era un edificio bianco, nuovo, pulito. Si affacciava sulla spiaggia. C’erano camerate con tanti letti e un refettorio con tavoli lunghissimi. Il posto era bello, ma il resto…Appena arrivati nella colonia ci radunarono e ci spiegarono le regole di disciplina cui dovevamo attenerci. Ci divisero in manipoli di trenta ragazzi in base alla nostra età e venni separato da Bruno. Io facevo parte dei “figli della Lupa” ed ero nel primo manipolo (quello dei più piccoli), mentre Bruno era un “avanguardista”. Ci fecero fare la doccia e ci raparono a zero, anche le bambine. Ci consegnarono le divise, tutte uguali. Ubbidivamo rassegnati e impauriti a quegli altoparlanti che urlavano ordini continuamente e alle vigilatrici che usavano la verga appena ci attardavamo in bagno o se non mantenevamo la fila per tre. Ogni manipolo rispondeva ad una vigilatrice e ogni bambino doveva rivolgersi alla sua vigilatrice di riferimento per qualsiasi necessità. Lina, anche lei “figlia della Lupa” e “futura madre degli eroi italiani che andranno a combattere e morire” la vedevo, senza poterle parlare, durante la ricreazione in cortile, quando di nascosto dalle vigilatrici cercavo di avvicinarmi alla rete che divideva le sezioni maschile e femminile. La prima volta che l’ho vista sono rimasto impressionato: mi sono sentito chiamare e poi ho visto una persona che mi salutava. Non l’ho riconosciuta con quella testa rapata! Poveretta, lei ci teneva tanto ai suoi capelli neri e ci è rimasta malissimo quando non l’ho riconosciuta. Poi le vigilatrici ci hanno interrotto e lei ha dovuto continuare la sua marcia. Le vigilatrici avevano il compito della nostra formazione e del nostro inquadramento nel rispetto delle regole. Erano le responsabili delle squadre; impartivano gli ordini bruscamente e se non venivano eseguiti velocemente e correttamente, i ragazzi venivano insultati e puniti.
Pochi giorni dopo il nostro arrivo in colonia, il 10 giugno 1940, Mussolini dichiarò guerra a Inghilterra e Francia. A noi bambini, spaesati e scombussolati, sembrava una realtà lontana; capimmo solo che la vacanza non sarebbe stata breve come ci era stato promesso. Io intuivo che qualcosa di grave era accaduto ma non sapevo ancora mettere a fuoco le conseguenze. Mio padre, che aveva fatto la guerra del 15-18 ogni tanto raccontava di bombe, morti e feriti: per me era qualcosa di pauroso, ma sconosciuto. Con gli altri 13000 bambini, io e i miei fratelli eravamo stati inghiottiti dalla macchina dello Stato fascista e presto venimmo dimenticati al nostro destino. Le giornate in colonia venivano scandite da una disciplina rigida. Il fischietto ti faceva sobbalzare e segnava le ore e l’inizio di tutte le attività. Il primo fischietto segnava la sveglia alle 6 del mattino, poi c’era quello della preghiera, quello per il bagno e poi la parata militare. Ci venivano insegnati gli inni fascisti e più volte al giorno ogni attività si bloccava per eseguire il saluto al Duce. Ci facevano fare un’ora di marcia sotto il sole o sotto la pioggia, a passo romano. Alle tre del pomeriggio, in piena estate, ci mandavano in spiaggia: qualcuno sveniva per l’insolazione. A tavola dovevamo fare il massimo silenzio, venivamo puniti mettendoci in ginocchio per ore e con le braccia alzate. Gli insulti, le parolacce ricevute nel clima di terrore e quasi di prigionia ci hanno segnato profondamente. Eravamo fanciulli ancora bisognosi di tenerezza e la privazione di ogni forma di sentimento ha impresso cicatrici profonde nella nostra anima. L’obbedienza assoluta alle regole ci ha impedito per lungo tempo di pensare con la nostra testa, ci ha resi insicuri, incapaci di reagire, fragili. Eravamo un branco di pecore, ed era proprio quello che il Duce voleva. All’inizio le vigilatrici cercavano di far sembrare quel periodo una vera vacanza intrattenendo a volte noi del primo manipolo, che eravamo i più piccoli, con giochi sulla spiaggia. Un pomeriggio, chissà come, Bruno riuscì a raggiungermi e insieme costruimmo una nave di sabbia. Ma fu un episodio singolo, meraviglioso ma unico. Probabilmente venne concesso l’incontro per poter scattare una foto e mandarla ai genitori in Libia per tranquillizzarli.
Alla colonia Miramare mancava l’impianto di riscaldamento e la costruzione non era adatta alle attività scolastiche. Il Fascio doveva garantire l’educazione e l’istruzione dei bambini e la scuola non poteva essere svolta nelle camerate fredde. Qualcuno cominciava ad ammalarsi. Una mattina una fila di camion si fermò davanti alla colonia e ci fecero salire sui cassoni. Ci traferirono in un’altra colonia vicina a Riccione, credo. Lì le aule e le camerate erano riscaldate e iniziammo la scuola. Non vedevo l’ora di imparare a scrivere per mandare una lettera a mia madre e chiederle di venirmi a prendere. Un giorno vidi Bruno che marciava nel cortile accanto. Pioveva forte e faceva molto freddo. I ragazzi più grandi, come Bruno, venivano sottoposti ad addestramento militare, marciavano con il moschetto in spalla per lunghe ore. La propaganda era potente e molti ragazzi come lui chiesero di essere mandati al fronte per donare la loro vita alla patria. Non era facile eludere la sorveglianza e avvicinarsi. A volte, Bruno la sera riusciva a sfuggire ai controlli e ad entrare nella mia camerata, mi portava una mela che lasciavo sul termosifone a scaldarsi. Era bello, mi faceva sentire un po’ meno solo e spaventato. Poi mi ricordo di essere stato malissimo. Avevo la febbre molto alta, forse si trattava di tifo, ma non ho mai saputo che malattia avessi avuto. Mi portarono in infermeria e chiamarono mio fratello Bruno ad assistermi la notte. Quando mi ripresi la prima cosa che vidi furono 6 mele in fila sul termosifone. Capii che erano di Bruno, il mio angelo custode. La febbre cominciò pian piano a calare; venni dichiarato fuori pericolo e venne riportato il letto nella camerata.
Il viaggio
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LibiaData di partenza
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