Mestieri
medicoLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
RuandaData di partenza
1994Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Raggiunto l’ospedale da campo di Nyamata, l’orrore del genocidio consumato in Ruanda nel 1994 si rivela agli occhi di Gaddo Flego, medico di Medici senza Frontiere
Alla fine, giungiamo a Nyamata: è una cittadina finalmente abitata, anche se anche qui prevale la sensazione di un cataclisma che si sia abbattuto su di essa. Arriviamo all’orfanotrofio che ci ospiterà per i primi giorni, e veniamo accolti dal logista e dall’infermiera del pool d’urgenza. Li vediamo solo per poche ore, poi ripartono per Byumba. Il logista è vestito come un turista, pantaloni corti, scarponcini, maglietta e un berretto con visiera indossato alla rovescia. E’ decisamente scosso, e la sensazione è che beva troppa birra e parli sempre un po’ sopra le righe. Ci dice che è la fine del suo periodo nel pool d’urgenza, e in effetti sembra avere un gran bisogno di riposo. Al contrario l’infermiera, una ragazza svizzera di lingua italiana, sembra avere trovato il modo di trasformare l’emozione in efficienza, e mi porta a vedere il cosiddetto ospedale, che in effetti è una scuola, dove sono ricoverati i malati. La struttura è una costruzione con all’interno un cortile, le aule si affacciano su di esso. Le aule non sono molto grandi, ognuna di esse ha una lavagna sul muro. In Africa le lavagne si fanno dipingendo una tavola di compensato con una speciale pittura nera opaca, e così sono queste. I pazienti sono su delle stuoie (alcuni non hanno neanche quelle) lungo le pareti. Ognuno di essi ha un pezzo di carta che tiene piegato e che mi mostra quando glielo chiedo: è la cartella clinica. La maggior parte ha delle ferite in via di cicatrizzazione, l’infermiera ha già formato qualcuno a fare le medicazioni e hanno fatto un gran lavoro, le bende sono pulite e danno dignità a questi poveri corpi mutilati. Sono tutte ferite inferte col machete, tagli netti alle caviglie, ai polsi, spesso anche sul cranio, dove non sono poche le fratture che non riescono a guarire per perdita di sostanza. Vedo ragazzi a cui sono stati amputati entrambi i piedi, altri senza una mano e con una profonda ferita sul cranio, che mi mimano il gesto di proteggersi la testa dal colpo di machete, rallentato dall’ostacolo frapposto del braccio e quindi alla fine non fatale. Una donna è stata colpita sul collo e riesce a tenere la testa solo in una strana posizione reclinata.
La cosa che colpisce, ora, è che sembrano tutti stare bene, a parte le ferite. In realtà sono i sopravvissuti alla caccia all’uomo, gli sprinteur, che si sono salvati perché ogni giorno hanno corso più forte dei loro aggressori, perché questi ultimi, quando sono riusciti a prenderli, erano esausti e non sono riusciti a finirli, perché sono sopravvissuti alla malaria e alla dissenteria che, nella paludi del Bugesera, in quei sessanta giorni dall’inizio del massacro sembra abbiano concesso una tregua. Il problema principale ora è nutrirli e medicarli con attenzione, e per questo siamo, e ci proponiamo di essere sempre di più attrezzati. Ma ogni giorno successivo arrivano altri pazienti, esausti, sull’orlo dello sfinimento. Giungono i dissenterici, gli anemici, i malnutriti, le ferite infette tenute nel fango delle paludi, da cui questi uomini e queste donne sono emersi come revenant. Hanno vinto, per ora, la gara della sopravvivenza, ma a quale prezzo: sperduti, senza più casa né famiglia, minati nel corpo e nello spirito, hanno lo sguardo della morte. Per giorni vedo la loro vita sfuggire con quel liquido chiaro e rosato che si allarga sotto la stuoia, la dissenteria bacillare, nonostante gli antibiotici, le flebo, le soluzioni per la reidratazione orale. Spesso non riesco a trovare la terapia giusta, chiedo aiuto a Claus perché ci dia l’acqua migliore che può, osservo i minimi cambiamenti per trovare l’antibiotico a cui la Shigella sia ancora, o di nuovo sensibile.
Il viaggio
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