Mestieri
insegnanteLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
UngheriaPeriodo storico
Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)Minacciata dai nazisti, la famiglia Di Franco si frantuma in giro per l’Europa del 1943.
Mia madre e io fummo sistemate nelle cantine del castello in una camera se così si poteva chiamare, era uno scantinato, dove l’acqua trasudava dal muro per una altezza superiore alla mia. Ci rimanemmo per quasi un mese . Forse tutta l’artrosi che mi ha cominciato a tormentare in giovane età, sarà stata la conseguenza di questo. Ma poi l’energia di mia madre prese il sopravvento e si rivolse al principe Bathyànyi per avere una camera più decente che ci fu assegnata. L’acqua corrente non esisteva nemmeno qui come nelle case degli ebrei deportati. Nel castello le stanze messe a nostra disposizione erano quelle della servitù. E così cominciò la nostra vita non più rosea. Io avevo sempre fame, ero nell’età dello sviluppo, perciò decisi di fare la sguattera nella cucina dell’osteria dove consumavamo i pasti. Riuscivo a mangiare di più rubando il cibo, ma non solo per me. Nel giardino del castello giocavo con i figli dei De Andreis, Stefano e Roberto, poco più giovani di me oppure lavoravo a maglia. La loro nonna polacca mi insegnò a lavorare a maglia alla polacca. Tutt’ora lavoro a maglia in questo modo e quando raramente arrivo a farlo mi rivedo in quel parco e con lei. Altro passatempo del pomeriggio era il gioco a carte, con i tre inseparabili, Perlasca, D’Alessandro e mio fratello Italo. Mi avevano insegnato a giocare a poker e a bridge perchè avevano bisogno di un quarto. Specialmente Perlasca mi faceva divertire molto, era un tipo allegro che scherzava sempre. Una delle sue battute preferite era: E va bene, disse il conte, toccandosi la fronte. Questa battuta mi è talmente rimasta impressa in mente che alle volte me la ripeto e mi sembra di rivedere Perlasca.
Il tempo passava ed eravamo arrivati ad ottobre. Circolava la voce che presto ci avrebbero portati in Germania. Mia madre si fece ricoverare in ospedale, a Szombathely, la città più vicina, fingendosi malata. Da li scappò e raggiunse i parenti a Budapest, la sorella Ibi e la di lei figlia Magda che essendosi separata dal marito, viveva nell’albergo Hungària. Mio fratello pensò che anche noi, cioè lui e io saremmo dovuti scappare. Perlasca, però, non dovette tentare la fuga con noi. Tramite i suoi amici della Legazione Spagnola era riuscito a farsi prelevare lo stesso 13 ottobre da una macchina della Legazione Svizzera che lo portò a Budapest. L’aiuto da parte degli spagnoli al Perlasca era dovuto al fatto che aveva combattuto come volontario al fianco di Franco nella guerra civile. Così il 13 ottobre sera, mio fratello Italo ed io ci avviammo verso la stazione ferroviaria che per noi era `off limits’ (zona proibita), ma incontrammo i gendarmi che ci sorvegliavano e ci mandarono indietro dicendo di non provarci più.
Il viaggio
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