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Durante un soggiorno di lavoro negli Stati Uniti a Carlo Alberto capita di assistere a un fenomeno meteorologico molto rato in Italia, ma molto frequente in alcune aree dell’America: il tornado.
La seconda tappa era prevista nel Nebraska ove aveva sede lo stabilimento principale del gruppo. Per raggiungerlo utilizzammo tre aerei di dimensioni via via decrescenti: il Jumbo (semivuoto) fino a Chicago, il DC6 (semipieno) fino ad Omaha sul Missouri ed infine un mini-aerobus (stracarico) che serviva le località fuori mano. Parecchi dei passeggeri erano in abbigliamento “rurale”, con vistose camicie a quadri ornate da bretelle larghe cinque centimetri, ed ampi cappelloni. Scendemmo in un aeroporto solitario: intorno si stendevano a perdita d’occhio campi coltivati intensivamente. Ci trovavamo nelle sterminate pianure degli Stati Uniti centrali, prive di monti, colline e foreste; in prima linea invece per le culture e gli allevamenti. La prima giornata la passammo, noi uomini, visitando in lungo e in largo la fabbrica, che era veramente d’avanguardia; la successiva fu dedicata alle disquisizioni tecniche più o meno dotte ed ai discorsi incrociati. Il terzo giorno era considerato… di evasione. Fummo accompagnati ad una non lontana azienda agricola a conduzione famigliare. Anche se il nucleo era notevole, 5 persone attive, si stentava a credere che esso potesse mandare avanti da solo tutta la baracca. Il “campo” era coltivato a grano, come indicavano due enormi silos con tanto di raccordo ferroviario. Il parco macchine comprendeva diversi mezzi meccanici (compreso un “gatto delle nevi” per gli spostamenti invernali); tra di essi campeggiavano due giganteschi trattori dotati di condizionatore, frigorifero e radiotelefono. Il proprietario ci spiegò che quando doveva raggiungere il punto più lontano della proprietà partiva il mattino e tornava la sera. Poiché tutto il mondo è paese, udimmo le immancabili lagnanze sulla sempre più scarsa redditività dei terreni, sulla crescente pesantezza delle tasse e sulla persi-stente inettitudine dei governanti. Insomma, anche qui il classico “Piove, governo ladro!”. Nonostante le lamentele, a noi parve di aver visitato una struttura futuristica ed in ottima salute.
Sulla via del ritorno il cielo si oscurò velocemente ed in modo per noi del tutto inconsueto. Gli indigeni sembravano assai preoccupati e puntavano il naso verso l’alto quasi a fiutare l’aria. Sentii pronunciare a mezza voce la parola, per me nuova, di “tornado”. E poco dopo scattò l’allarme: sirene, radio, altoparlanti della polizia si scatenarono di colpo per segnalare il pericolo ed urlare l’ordine di mettersi immediatamente al riparo abbandonando le vetture e financo gli autobus. Noi fummo fatti scendere precipitosamente davanti ad un piccolo museo che ostentava attrezzi ed oggetti già appartenuti ai pionieri in marcia verso il west: proprio lì si trovava uno dei passaggi obbligati per coloro che tentavano la grande avventura. Al sicuro dietro le grandi e robuste vetrate dell’ingresso potemmo così osservare lo svolgersi del temuto fenomeno: pioggia torrenziale accompagnata da vento fortis-simo, più numerose trombe d’aria, fortunatamente lontane, che si levavano nere e minacciose in forma di spirale e si spostavano velocemente. Alcune, pur in forma embrionale, ne vedemmo formarsi a poche decine di metri dalla nostra postazione; sembravano sorgere dal suolo e salivano a turbine portando in alto erba, terriccio, rami e quanto altro riuscivano a ghermire. Poi improvvisamente abortivano (per nostra fortuna). Dopo qualche ora venne il segnale di cessato allarme: venimmo liberati ed accompagnati in albergo. La televisione continuava a trasmettere su tutti i canali servizi relativi al tornado, segnalando i danni, per la verità lievi, e soprattutto indicando gli spostamenti della perturbazione per allertare le zone interessate dal prossimo passaggio. Ci fu spiegato che il fenomeno era da quelle parti piuttosto frequente e spesso devastante: ecco il perché di tante precauzioni.