Paesi di emigrazione
RussiaData di partenza
2001Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)La difficoltà ad avvicinarsi alla zona di guerra della Cecenia, spinge Bettini e gli altri membri della Operazione Colomba attivi nella Russia meridionale nell’estate del 2001, a cercare di prestare aiuto ai profughi ceceni disseminati nelle contigue realtà territoriali.
Diario caucasico (12/06-22/06 2001)
La partenza da Volgograd mi spaventa come tutte le partenze ma la mia solita ansia e condita dalla paura per un viaggio che facciamo da soli e con una meta, Vladikavkaz che a tutti e ignota. Il viaggio comincia su un treno, i famosi treni russi che sono grandi e imponenti come il paesaggio che attraversano. Il paesaggio che mi passa davanti non è più un incognita già qualche mese fa avevamo attraversato questi posti che, però, rispetto al grigiore e alla tristezza invernale ora sono belli e lucenti di un verde vivo. Il canale Volga-Don ricorda un po’ meno, affollato com’è di gente che ci fa il bagno, il sacrificio e il lavoro forzato di centinaia di migliaia di uomini prigionieri delle purghe staliniane. Anche le grandi fabbriche da piano quinquennale sembrano più belle. La Russia in estate è bella! Il mio viaggio in treno è accompagnato dalla lettura di altri treni, convogli teutonicamente organizzati da un uomo che per questo quarant’anni fa è stato processato e condannato a Gerusalemme: Adolf Eichmann. Arriviamo alla stazione di Mineraine Vode, cittadina del nord Caucaso che qualche mese fa è stata teatro di alcuni attentati di matrice cecena che hanno provocato la morte di sei persone e il ferimento di un centinaio, qui inizia la parte nuova del nostro viaggio. Da qui cerchiamo un taxi collettivo (Mascrut) che ci dovrebbe portare, in circa tre ore, a Vladikavkaz, capitale della repubblica dell’Ossezia del Nord facente parte la Federazione Russa. Un primo taxi ci porta poco distante dove un paese è trasformato nel più grande mercato di tutto il Caucaso. Dopo un paio d’ore d’attesa ripartiamo con un altro taxi alla volta di Vladikavkaz. Il mondo che passa davanti ai finestrini è vivo ed estivo, prati, monumenti, uomini e donne che lavorano nei campi, mezzi agricoli, case, paesi, mucche e pecore al pascolo, un antipasto di montagne, ma soprattutto verde, verde vivo. Arriviamo nel primo pomeriggio a destinazione e scopriamo una città ordinata ben tenuta e con un centro storico carino e accogliente. Anche gli squadrati casoni di sovietica memoria qui sembrano più belli che a Volgograd.
L’accoglienza degli amici della Caritas locale e grande e ci fanno sentir subito a nostro agio. Si parla un po’ e ci offrono per la notte quella che diventerà la futura chiesa. Ci raccontano anche di come, fino a due anni fa, il pericolo dei rapimenti di stranieri era concreto e reale, ma oggi non è più fortunatamente cosi’. Le raccomandazioni per la notte sono comunque quelle di non aprire a nessuno fino al giorno successivo. Non nascondo che da soli in quella casa vuota ho avuto un sano sentimento di paura che però é stato superato dalla stanchezza e dal sonno. Un giro in città il giorno successivo ci permette di confermare il giudizio frettoloso del giorno precedente. Visitiamo la moschea cittadina che qualche anno fa è stata parzialmente danneggiata da un attentato, mi stupiscono i numerosi segni rimasti a ricordare il passato sovietico e un monumento di un uomo a cavallo che poi scopro essere Issa Pliev eroe di guerra osseto comandante di cavalleria. Parlando con gli amici scopro che in Caucaso vige la legge non scritta “del sangue” simile al canun albanese. Le tradizioni qui sono molto forti e anche i legami familiari lo sono tant’è che si puo parlare di clan. La “legge del sangue” prevede che la famiglia di cui un componente ha fatto il torto può chiedere perdono all’altra, con un rito che a volte può portare un intero clan a muoversi in ginocchio dalla propria abitazione a quella dell’altra famiglia. A questo punto pare che il più anziano del clan si alza e va a parlamentare il perdono con l’altra famiglia. Si parla anche di rapimenti che si dice siano un fenomeno comune in Caucaso solo dopo il crollo dell’Unione Sovietica e l’inizio delle numerose guerre e paci armate. Ci raccontano che inizialmente il fenomeno era nato per scambiare prigionieri o ostaggi delle varie fazioni poi ha preso la via monetaria fino a diventare un business che vede come vittime privilegiate gli stranieri. In Ossetia del Nord, però, pare che il fenomeno si sia sensibilmente attenuato; il parroco cattolico, che è scozzese, due anni fa girava scortato dalla polizia mentre oggi si muove liberamente anche di notte. La chiesa cattolica di Vladikavkaz è una stanza di un abitazione. I fedeli sono un gruppo di circa trenta persone che si conoscono le une con le altre. In parte sono i discendenti di quei soldati di ventura che la zarina Katerina aveva fatto arrivare da occidente per difendere la frontiera meridionale dell’impero nel XVIII secolo. I polacchi e gli italiani avevano, infatti, eretto una chiesa che è stata poi in parte abbattuta in parte adibita ad altri scopi nel 1936 dai rivoluzionari bolscevichi che non si scordarono nemmeno di arrestare e condannare a morte il parroco per spionaggio. Nel 1950 il parroco è stato riabilitato ma tutto era ormai disperso tranne sette quadri della via crucis, di cui uno si trova nella chiesa attuale, che sono stati ritrovati nelle cantine del museo cittadino agli inizi degli anni novanta. É proprio uno di questi quadri, precisamente la seconda stazione, che attira la mia attenzione. É usurato dal tempo e le figure, in bassorilievo, sono quasi prive del colore originale; ciò nonostante mi affascina la storia di questo pezzo di legno giunto, con gli altri, suoi fratelli, dalla Polonia intorno al 1860, si vede Cristo che porta la croce ai lati ci sono rispettivamente un centurione e una persona che non riesco a decifrare chi sia. Potrebbe essere uno degli apostoli oppure il Cireneo oppure un giudeo insultante, ma mi colpisce il suo sguardo intenso e severo che si è conservato fascinoso anche dopo tutte le peripezie che la storia ha imposto al quadro.
L’Ossezia, che ad un primo sguardo ci appare lontana dalla guerra, ospita molti profughi causati dai numerosi conflitti che negli anni novanta hanno insanguinato la zona. L’Ossezia stessa ha combattuto un breve conflitto, durato dal 31 ottobre “91 al febbraio”92, contro la confinante Inguscetia per motivi territoriali. Il confine tra i due stati, entrambi appartenenti alla Federazione Russa, è tuttora molto militarizzato. Un altro conflitto che ha portato molta gente a rifugiarsi in Ossezia del Nord è stato quello che, nella confinante Georgia indipendente, ha visto fronteggiarsi forze indipendentiste sud ossete e quelle governative georgiane. Naturalmente anche il confine con la Georgia è molto militarizzato. Con gli amici della Caritas, e attraverso il loro lavoro, incontriamo le vittime di questi conflitti che in molti casi vivono in questa condizione da quasi dieci anni. Il primo che incontriamo, al punto di distribuzione della Caritas, è un anziano fuggito da Grozny durante la prima Guerra di Cecenia. Il suo sguardo è quello fiero e dignitoso di chi fa una grande fatica a chiedere, mi pare che si vergogni di noi, spettatori. Poi andiamo a visitare una specie di collegio al quale vengono affidati bambini orfani o tolti alle famiglie. Come mi è già capitato di vedere, qui in Russia, il direttore e i suoi collaboratori sono pieni di buona volontà ma le risorse sono poche e la Caritas cerca di dare una mano. Il collegio si trova in una zona che era in passato luogo di colonie estive ma ormai abitata da dieci anni da profughi che provengono dalla Georgia. Anche queste persone sono schiacciate dalle definizioni burocratiche come i profughi incontrati a Piatigorsk qualche mese fa. In questi anni non sono riusciti ad ottenere lo status di rifugiati né documenti russi; per la burocrazia, che gli ignora, sono immigrati clandestini dalla Georgia. Mentre le donne si prodigano a rendere accoglienti e simili ad una casa le baracche dove vivono per gli uomini l’unica occasione di lavoro è quella di recarsi in un posto dove loro stessi hanno scritto su di un palo la parola ” p a” (birscia). Tradotto letteralmente significa “borsa” ma non è altro che un punto dove si raccolgono braccianti per lavori occasionali e di fatica.
Abbiamo poi visitato un decadente camping che all’epoca della prima guerra di Cecenia aveva ospitato molti profughi, ora sono rimasti quelli più poveri che non hanno altro posto dove andare. Ne incontriamo due, mi colpiscono i loro sguardi, vuoti, senza speranza. Molte sono le cose che mi frullano nella testa, ma a sera mentre mi rilasso sul mio precario letto in quella che sarà la futura chiesa sento una strana sensazione di insicurezza, è una paura irrazionale, annoto sul blok notes queste cose: Paura; la gente che ti guarda, il fatto di essere molto visibili, rimanere da soli, non capire quanto si rischia. Non so, poi le mie letture mi riportano ad Adolf Eichmann al dramma del popolo ebraico sterminato nei campi, al male e di coloro che furono strumenti del male. Leggo a proposito della sua condanna a morte: Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male. Il giorno successivo arrivano i ragazzi della Caritas ceka che ci faranno vedere il loro lavoro in Inguscetia con i profughi ceceni. Mangiando si discorre in russo e forse stimolati dalle nostre domande si incomincia a parlare di com’era prima quando ancora esisteva la cortina di ferro. Fra russi e ceki c’è quasi un confronto sento dire: non sapevamo come si viveva dall’altra parte. Poi ancora: Noi sentivamo le radio occidentali Noi non ci riuscivamo, e una frase che assomiglia a quelle che dicono i nostri vecchi rispetto al secondo dopoguerra: I mandarini si trovavano nei negozi solo una volta all’anno . alle volte ne regalavano uno ad ogni bambino nelle scuole. Poi una storiella di quei tempi per far capire come si viveva: Un russo va in occidente e in un negozio chiede. Quando arrivano le prime fragole? Alle sei e mezza della mattina. Non pensavo che la caduta del muro significasse anche l’accesso, senza calcoli di stagione, a beni come le fragole; anche se qui il poter disporre di certi prodotti e alimenti è diventato privilegio dei pochi ricchi. Partiamo alla volta di Nazran capitale dell’Inguscetia, sulla strada mi colpisce una grande fabbrica decadente con gradi mucchi di materiale ferroso da dove spuntano ciuffi di erba verde, le rovine delle case della guerra osseto-inguscia, poi degli uomini che giocano a carte all’ombra di un albero. Arriviamo a Nazran e abbiamo un piccolo incontro con i ragazzi della Caritas ceka, spieghiamo meglio chi siamo e cosa vorremmo fare. Non aiuti umanitari ma condivisione. Un pensiero mi rende ansioso, annoto: non sembriamo avere le idee chiare, gli altri non capiscono quello che vogliamo fare. Iniziamo il giro dei campi per cercare di capire che cosa è cambiato in questo anno e che cosa potremmo noi fare. Il primo posto dove ci rechiamo è una ex fabbrica di conserve. Ci sono un paio di capannoni dove I profughi hanno ricavato delle stanze dove vivono, i materiali più usati sono il cartone e il legno di scarto la gente è contenta della visita e accoglie come “una vecchia amica” Katerina, della Caritas ceka, che ci accompagna. Ci sono molti bambini e le donne sono molto loquaci hanno voglia di raccontare come vivono ma senza fare drammi, quasi gioiosamente. Ci viene mostrata anche la scuola del campo che come da copione è ubicata in una tenda; ancora, come un anno fa, mi colpisce la dignità di queste persone che ormai da due anni vive così, poi una frase: Non dimenticatevi di noi, tornate ancora. Il fatto che queste persone siano felici di vederci non mi distoglie dal pensiero che aldilà del confine c’è ancora una Guerra e che la gente muore da tutte due le parti. La Tv riporta la notizia di due aerei che ufficialmente si sono schiantati sulle montagne cecene causa nebbia, molti rumoreggiano che siano stati , invece, i ribelli ceceni. Amici ci raccontano la storia di una famiglia che ha tentato di denunciare i soldati colpevoli di aver tentato di sgozzare loro figlio e che per tutta risposta sono stati ritrovati morti. Ci muoviamo velocemente attraverso la verde Inguscetia e isolata, in mezzo ai campi, in una piccola casa conosciamo una delle tante famiglie aiutate dalla Caritas. Si tratta di una grande famiglia: padre, tre mogli e 25 figli e un cane. L’uomo racconta anche che al momento della loro fuga dalla Cecenia il loro cane li guardò con uno sguardo che costrinse il capofamiglia a caricarlo in macchina con il resto della famiglia e a portarlo profugo, anch’esso, in Inguscetia. Mi colpiscono le parole del capofamiglia riguardo alle bande ribelli cecene: io sono ceceno, ma dico che da noi ci sono dei terroristi che non rispettano niente e nessuno e che stanno vendendo il loro popolo. La famiglia è grande e povera per il loro sostentamento i ragazzi della Caritas stanno facendo colletta per comprare una mucca che almeno darà latte ai bambini. L’acquisto di una mucca per una famiglia bisognosa non rientra nei programmi degli aiuti umanitari quindi si è costretti a rimettersi alla buona volontà delle persone che si trovano a lavorare con questa gente. É sera e sono sdraiato sul mio comodo letto nell’albergo più lussuoso e sicuro, per noi stranieri, di Nazran penso alla giornata e alle cose che ho sentito dire, alle persone che ho incontrato e alle cose che ho visto. Si dice che il governo russo abbia posto come limite ultimo per il rientro dei profughi in Cecenia la fine dell’estate ma questa cosa sembra fantascienza, in Cecenia c’è guerra, morte e distruzione. Nei campi abbiamo incontrato profughi che inizialmente erano stati ospitati in famiglie o erano riusciti ad affittare un appartamento, ma l’ospitalità ha un limite e i soldi finiscono. I miei pensieri vengono interrotti dal gracchiare della Tv che trasmette un telegiornale. Putin e Bush si incontrano a Lijubiana in Slovenia, capisco poco, parlano di pace, stabilità dei Balcani, lotta all’estremismo islamico. Non parlano dei profughi che in questo momento sono sotto un temporale. Non si parla degli interessi contrapposti di Russia e Stati Uniti nel Caucaso, durante tutto il telegiornale non si fa nessun accenno a quest’area geografica. Si vedono, invece, le proteste di militanti di “Greenpeace” davanti all’ambasciata statunitense a Lijubiana contro il progetto di “Scudo stellare” penso malignamente chi c’era invece davanti a quella russa? La Tv smette di gracchiare e io rimango solo con i miei pensieri, le mie letture. Una domanda mi ronza nella testa: Quanto si rischia a frequentare assiduamente i campi profughi come penso sarebbe il lavoro dell’Operazione Colomba qui?
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