Mestieri
operaioLivello di scolarizzazione
frequenza universitariaPaesi di emigrazione
SveziaData di partenza
1964Periodo storico
Periodo post seconda guerra mondiale (1946-1976)La cronaca di un'interessante e inedita traiettoria migratoria compiuta da un giovane italiano a metà degli anni Sessanta in direzione della Svezia.
Il primo viaggio verso la Svezia iniziò malissimo.
Il mio carissimo amico F. S. mi accompagnò alla stazione per prendere il treno delle 22 per Monaco di Baviera. C’era sciopero e quindi salii sulla corriera sostitutiva che doveva portarmi fino a Tarvisio, per poi da lì prendere un altro treno per Monaco. Arrivammo verso l’una di notte ed aspettammo fino alle 3 l’arrivo di un treno che veniva dalla Serbia. Era un treno di emigranti ed era strapieno. Appena cercavo di salire in carrozza, mi trovavo di fronte un muro umano di persone in piedi e stanchissime. Provai a ripetere l’operazione in altri vagoni ma il risultato fu lo stesso. Addirittura da uno dei vagoni una donna, appena aprii la porta, cadde giù sulla pensilina e gli altri erano così furibondi che qualcuno mi respinse scalciandomi con il piede. Non rimaneva che il vagone merci in fondo al treno e lì ci dirigemmo, circa venti persone che provenivano da Udine. Anche quel vagone era affollatissimo, ma comunque, spingendo e facendo alzare qualcuno che si era steso a terra per dormire, riuscimmo tutti a prendere posto in piedi. Penso che il pensiero di tutti, ma certamente il mio, corse con il ricordo ai vagoni di deportati ad Auschwiz. Anche io come gli altri passeggeri di Udine avevamo addosso vestiti “cristiani” ed avevamo ognuno una valigia proprio come gli ebrei deportati. Non così i serbi o montenegrini, che avevano già forse un giorno di viaggio alle spalle. In un angolo del vagone (che tutti cercavano di evitare) c’era lo spazio escrementi e personalmente ho visto un bambino “liberarsi”. Il tanfo veniva però mitigato da profumi intensi di salumi, aglio e formaggi che quegli emiganti portavano con sè. L’emigrante, al ritorno nel paese di immigrazione, si porta sempre un po’ di cibo che gli ricordi casa. Questi quì dovevano essere emigranti alle prime armi che non conoscevano le regole internazionali sul traffico di cibo che vigeva allora, perchè tutto il loro cibo venne sequestrato al confine fra Austria e Germania dai poliziotti tedeschi. Qualcuno si mise a piangere. I gendarmi non ebbero però nessuna pietà e requisirono tutto in pochi minuti urlando frasi incomprensibili in risposta alle rimostranze dei viaggiatori. Il pensiero più comune è che se lo siano mangiato loro con le mogli e con i figli. La mia valigia e quella degli altri italiani non vennero aperte, forse perchè eravamo vestiti da “cristiani” (io addirittura in giacca e cravatta).
In Svezia si pose subito il problema del permesso di soggiorno e di lavoro, che dovevano essere rilasciati dall’ambasciata nel paese di emigrazione, prima di immigrare. Sorvolando momentaneamente sul problema, venni assunto come garzone in un grosso studio fotografico: sistemavo le luci, mettevo su il disco di Astrud Gilberto quando futuri e prossimi sposi, vestiti come lo sarebbero stati il giorno delle nozze assieme a genitori e suoceri, venivano a farsi riprendere per le foto di rito da Stig Gimlin, l’artista titolare dello studio. Il mio lavoro consisteva poi nel sviluppare i negativi e stampare le foto. Successe una volta che Stig mi portò con sè in chiesa a riprendere anche il rito del matrimonio. In Svezia i fotografi non usavano il flash e non si muovevano dalla porta di ingresso durante il lavoro. Non so se per rispetto del luogo , per il divieto del prete o per abitudine. Altro era , ed è, il comportamento del fotografo durante i matrimoni italiani. Per avere belle fotografie, in Italia è permessa qualunque cosa, anche far rinfilare gli anelli agli sposi se, per caso, il fotografo ha perso l’attimo. Il fotografo si sposta come vuole, sale e scende dall’altare, fa spostare la gente, impone lacrime e sorrisi.
Io feci la stessa cosa in una austera chiesa protestante. Il prete impiegò più tempo per seguirmi con lo sguardo che a svolgere la funzione e penso che la concentrazione degli astanti sul grande valore dell’atto fosse molto relativa. Tuttavia fu un successo per le bellissime ed originalissime inquadrature del rito che nessuno aveva mai visto in Svezia. Mi dicono che ora sia diventata una prassi comune in tutto il territorio nazionale.
Rimaneva il problema dei permessi anche perchè questa mia attività mi esponeva ad una grande visibilità. Per risolvere il problema intervennero e si accordarono tre persone: Stig , un italiano (Gallo) che lavorava all’ufficio del lavoro ed un funzionario di polizia. Non so come fecero, ma ottenni il primo permesso che, per legge, essendo il primo, valeva tre mesi ed era automaticamente rinnovabile a meno di cattivi comportamenti da parte dell’immigrato ed a patto che avesse ancora un lavoro. Tutto bene? Tutto a posto? Magari! Adesso ero inseguito dall’esercito italiano che mi voleva a fare il servizio militare, perchè avevo già ottenuto un rinvio per l’anno precedente, trascorso frequentando l’università a Trieste. In base alla legge non potevo ottenerne un altro per altri motivi. Il mio primo impulso fu di fregarmene, ma le insistenze di mio padre affinchè obbedissi all’obbligo da parte del console italiano furono così stringenti che tornai in Italia. Se non lo avessi fatto sarei stato considerato un disertore e sarei finito in prigione appena avessi rimesso piede in patria. “Forse già al confine!” mi minacciò il console. Feci il corso ACS (allievi comandanti di squadra) a Sabaudia ed alla fine, dopo tre mesi venni congedato. Non era mio diritto ma avevo vissuto così male quel periodo (mi feci 11 notti di cella) che non venni ritenuto degno di ricevere i gradi. La cosa non era mai successa dalla fondazione di quella scuola. Non sono mai stato così felice come quando il colonnello comandante mi cacciò per indegnità.
Il viaggio
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