Mestieri
studenteLivello di scolarizzazione
licenza media inferiorePaesi di emigrazione
LibiaPeriodo storico
Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)Il rapporto con il padre e con la comunità locale, le pratiche superstiziose e religiose che attraversavano la comunità italiana nella Bengasi degli anni Quaranta, raccontate da Agatina in una memoria che ripercorre gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza vissuti in Libia.
Mi sentivo bene quando andavo al Palmeto a caccia con papà, con il suo primo cane da caccia “Clara” quasi tutta color marrone; ma non ubbidiva a mio padre perché lui era impulsivo e selvaggio e la terrorizzava e a nulla valevano le mie carezze. Quando sparava alle quaglie e allodole, mi rincantucciavo sotto un albero di datteri, perché gli spari del fucile mi mettevano paura, sentendo pena per qualsiasi animale, ma poi essendo mangiona, (mi piaceva come cucinava mamma) allora non ci pensavo più. E in queste scorribande, qualche volta, ci riposavamo sotto qualche tenda araba, tanto più che papà li conosceva e sapeva parlare discretamente l’arabo. Si beveva allora il thè arabo fatto con la caccovia (specie di noccioline americane) e si mangiava volentieri il Cuscus, cibo prelibato per loro, ma anche a noi piaceva. Le strade arabe dove era concentrata la maggioranza della popolazione, erano piene di pietrame, sporcizia e fango, con escrementi di animali vari che passavano a tutte le ore: pecore, qualche cammello, somari, ecc. Ma a pochi chilometri, ecco il centro di Bengasi, con qualche bar più o meno elegante, quasi tutti con sedie fuori, un bel giardino pubblico pieno di verde e quando papà mi portava a prendere la pastarella mi sentivo quasi a disagio in mezzo a tutti quegli uomini, anche amici suoi; mentre più avanti si sentiva un’orchestrina formata da signore eleganti che suonavano. C’era anche un bel teatro “Berenice” dove mi portò a vedere, insieme ad un suo amico, l’opera “Rigoletto” di G. Verdi. Eravamo in un palco situato all’ultimo piano; non capivo quasi niente, ma quella musica, infondeva in me ansia e dolcezza fatta di malinconia e speranza. Ero una bambina emotiva e il brutto e il bello di quella terra mi suscitava reazioni forti, sia nei bene che nel male. Cera molta ignoranza e superstizione nella popolazione più arretrata, sia orientale che italiana, ma la gente era generosa e umana. Ricordo una certa donna R., una signora italiana, proveniente dalla Tunisia, senza figli e con un marito molto più anziano di lei e sgarbato. Lei era una donna chiamata da tutti coloro che abitavano lungo la stessa strada. Moriva spesso gente giovane, bambini (a parte gli arabetti che quasi ogni giorno, si vedevano passar dentro quelle piccole bare, tenute dai loro cari che pregavano in coro). Donna R. correva tra gli italiani poveri: chi la chiamava per una morte, chi per un matrimonio o una nascita. Ero affezionata a questa donna buona e generosa. Mi conduceva spesso in Chiesa a recitare il Rosario, ma io balbettavo. Ero piccola; le chiedevo chi fosse Gesù. Ero convinta che fosse Padre A., un missionario Con la barba bianca e un po’ gobbo. Non rispondeva con chiarezza e mi indicava che Dio era quello di un quadro gigante esposto sopra l’altare, mentre a me sembrava impossibile che in quel quadro ci fosse Dio-Gesù, poiché non era in carne ed ossa; quindi continuavo a fissare Padre A.
Il viaggio
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