Una fabbrica a tremila metri

Lima era talmente piena di fiori, di parchi e di ville fastose da lasciarci stupiti. Le matronali auto americane ci parevano incredibili. La benzina non si vendeva a litri ma a galloni. Li la guerra era stata appena una questione di politica estera. La comunita italiana era composta per la maggior parte da artigiani e da commercianti di origine genovese o meridionale. Una comunità prospera e ben vista al punto da non essere toccata, malgrado la guerra avesse visto il Perù l’Italia schierati su opposti fronti. Non altrettanto bene era andata alla comunità giapponese, pure numerosa e prospera ma non particolarmente ben vista, i cui beni erano stati requisiti e non era ancora chiaro cosa sarebbe accaduto. In tale frangente c’era stato almeno un italiano – non so se l’unico – che, pur non essendo politicamente concorde con le ragioni addotte dall’Italia per entrare in guerra, aveva ritenuto di onorare le alleanze contratte e si era sentito in dovere di dare una mano ad amici giapponesi, acquistando i loro beni e mettendoli in tal modo in salvo da rischi, per restituirli, poi, a guerra finita. Gli effetti della guerra ci apparirono come un filo ingarbugliato che si era dipanato per tutto il mondo, saltando senza difficoltà distanze di ogni genere.

“Vestitevi. Lassù non fa caldo” ci disse l’amico del cugino Ovidio, nostro riferimento, guida e appoggio. L’unico, ormai. Papà era stato favorevolmente impressionato dal colloquio avuto con gli amministratori della società e si sentiva di nuovo la terra sotto i piedi, metaforicamente parlando. Il lassù cui si alludeva era la città nella quale avremmo abitato. “Devo aver capito male” disse papà a bassa voce. “Mi è parso di capire che la fabbrica si trova a. oltre tremila metri. Come può essere possibile? “.