Mestieri
operaioLivello di scolarizzazione
licenza elementarePaesi di emigrazione
LibiaData di partenza
1939Periodo storico
Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)Il duro epilogo dell’esperienza di vita della famiglia Ghion tra l’esperienza colonica in Libia e la Seconda guerra mondiale: alla fine del conflitto, Pietro Renzo piange la morte del fratello maggiore Bruno, e la lacerazione dei rapporti con la madre e il padre che per anni non ha potuto vedere.
Nel 1943, quando cominciarono a diventare più intensi i bombardamenti e la colonia sull’Adriatico non venne più considerata sicura, ci caricarono su un treno e ci portarono in Trentino, a Dobbiaco. Lì non c’erano le vigilatrici, ma gli istruttori. E la disciplina era ancora più rigida. Bruno lo vedevo mentre marciava in cortile; Lina la incontravo di sfuggita qualche volta durante le passeggiate, ma non ci siamo mai potuti parlare. A Dobbiaco feci la Cresima e ricevetti il primo regalo e l’unico giocattolo della mia vita: una trottola rossa e gialla. Mi fece da padrino il capostazione e mi regalò una trottola rossa nuova fiammante. Ero al settimo cielo! Per tutti gli anni di colonia non abbiamo mai avuto notizie dal resto della famiglia in Libia. Mai una notizia. Un giorno l’istruttore mi chiamò in refettorio e lì vidi Bruno insieme ad uno sconosciuto. Questo signore alto e magro, con il cappello in mano, si avvicinò e mi prese in braccio. Io, che avevo quasi dieci anni e non ero abituato a questo tipo di smancerie, cercai di liberarmi bruscamente. Mio fratello capì il mio imbarazzo e mi disse di star tranquillo: era lo zio Gildo, il fratello di mio padre. Era venuto a prenderci per andare a raggiungere il resto della “famiglia grande”! Insieme andammo nella colonia vicina, dove c’era Lina e poi, tutti insieme ci mettemmo in viaggio per Sabaudia. Lo zio aveva ricevuto una lettera di mia mamma, in cui chiedeva di rintracciarci. Deve aver chiesto all’Opera Combattenti e fortuna ha voluto che scoprisse dove eravamo finiti. Il poveretto è partito da Sabaudia su mezzi di fortuna ed è arrivato in Trentino, superando chissà quali difficoltà. In quel periodo, intorno al 1943, i bombardamenti erano all’ordine del giorno e i mezzi di trasporto erano inesistenti per non parlare del pericolo di cadere nei rastrellamenti. E senza mezzi economici. Comunque ci trovò e ci portò a Sabaudia, dove venimmo accolti dalle famiglie degli altri zii e dai cugini, che vivevano ancora tutti insieme. È stato un miracolo riuscire a fare un viaggio così, incolumi. Abbiamo saputo da zio Gildo che mio padre e mio fratello Rino erano stati presi prigionieri dagli Inglesi. Di mia mamma, di mia sorella Germana e di mio fratello Alfeo non avevamo notizie.
Nel podere a Sabaudia eravamo 26, il cibo era scarso. Noi ragazzini cercavamo le anguille nei canali o le uova nei nidi. I grandi erano impegnati nei campi, dove era ancora in corso la bonifica. C’erano zanzare dappertutto e io mi ammalai di malaria. Le zie erano affettuose e mi curarono col chinino che Bruno, non so come, era riuscito a procurare. Nel 1944 cominciarono gli sbarchi degli Americani ad Anzio e Nettuno. Vedevamo i bagliori delle bombe e sentivamo gli scoppi, gli aerei passavano bassi sopra la nostra casa. La contraerea tedesca sparava dai fortini costruiti lungo la spiaggia, vicino a noi in linea d’aria. Il nostro podere era sulla strada litoranea, un percorso obbligato per risalire la penisola. Le colonne dei soldati tedeschi passavano in ritirata e si fermavano a requisire quel poco cibo che avevamo. Urlavano ordini che noi non capivamo e si infuriavano ancora di più se non trovavano qualcosa da mangiare. Quando facevano i rastrellamenti mio fratello Bruno, che ormai era quasi un uomo, scappava a nascondersi nel bosco vicino. Poi fu la volta delle colonne americane. I ragazzi americani ci buttavano tavolette di cioccolata, che noi non sapevamo nemmeno cosa fosse. Il destino si accanì un’altra volta contro di noi. E mi venne sottratto il mio angelo custode. Bruno si ammalò e morì. Non abbiamo mai saputo di che malattia. Mi sentii perduto, solo Lina capì il mio stato d’animo. Per noi era stato il sostegno morale durante gli anni trascorsi in colonia e lontani dalla nostra famiglia. Era il nostro punto di riferimento, il faro nella notte. Un giorno, ormai la guerra era finita, si fermò un carretto sconosciuto davanti all’ingresso del nostro podere. Scese una signora alta, magrissima, coi capelli grigi. Aveva un fagotto in mano. Le zie uscirono sull’aia e riconobbero mia mamma. I bambini le andarono incontro e la circondarono curiosi. Io rimasi impalato. Non ricordavo quasi nulla di lei, ma certamente non poteva essere mia mamma quella vecchia che mi trovavo davanti. Scappai nel fienile. Bruno mi prese da parte e dolcemente mi avvicinò a lei. Ricordo che piangeva e questa dimostrazione di sentimento, che per anni mi era stata vietata, mi sembrava scandalosa. Era stata rimpatriata da Bengasi e presto l’avrebbero raggiunta anche Germana, che si era sposata e aveva avuto una bambina, e Alfeo. Di tutti i sogni e le speranze rimaneva qualche fotografia che conservava nel fagottino liso che stringeva. Non ha mai voluto raccontare cosa capitò nel villaggio durante le incursioni degli inglesi e degli arabi quando rimase sola nel podere con Germana. In qualche maniera riuscirono a fuggire e a trovare rifugio a Bengasi, in casa dei parenti del marito di Germana e lì le raggiunse anche Alfeo. Non avevano mai ricevuto notizie dal nonno e da Rino, che sapevano solo essere stati presi prigionieri. Non recuperai mai il rapporto con mia madre. Penso che a modo suo mi volesse bene o forse il suo era un senso di dovere nei miei confronti, non so. Io mi sono sempre sentito distante dal suo cuore, non mi sono sentito amato, né protetto. Dopo la commozione del primo momento, quando ci siamo rivisti, non ricordo un abbraccio o un gesto affettuoso da parte sua. Forse il mio pudore nelle emozioni e la mia timidezza la tenevano lontana, non so. Ma non è più stato un rapporto dominato da un sentimento dimostrato. Mio padre arrivò a Sabaudia dalla prigionia distrutto fisicamente e psicologicamente. Dopo qualche tempo arrivò anche Rino, più inferocito di prima verso il Duce e il Fascismo.
Quando mio padre si riprese un po’ riuscimmo a trovare una sistemazione come braccianti. Purtroppo, avendo perso Bruno, la forza lavoro non era sufficiente per farci assegnare un podere. Per un breve periodo abbiamo lavorato presso una famiglia di mezzadri che ci trattava bene, ma sfortuna volle che il padrone morì e la moglie tornò a vivere dalla sua famiglia d’origine. Eravamo rimasti un’altra volta sul lastrico. I fratelli di mio padre vennero in aiuto e ci regalarono un pezzetto di terreno su cui costruimmo una piccola abitazione. Avevamo un tetto sulla testa, ma la nostra famiglia ormai si era disgregata. Eravamo un gruppo di sconosciuti, ognuno con un proprio percorso di vita tragico alle spalle, che ha condizionato tutta la nostra esistenza e i nostri rapporti.
Il viaggio
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