Paesi di emigrazione
BrasileData di partenza
1930Periodo storico
Periodo tra le due guerre mondiali (1914-1945)Dalla memoria di Giorgio Lilli affiorano i ricordi dell’infanzia trascorsa in Brasile, nella casa sperduta in un paesino del Mato Grosso dove il padre, medico, aveva condotto a vivere tutta la famiglia. L’elemento di maggior rilievo nei ricordi di Giorgio è la presenza costante di animali esotici dentro e fuori dall’abitazione, ben accolti dal padre che amava moltissimo il contatto con le specie più rare presenti alle latitudini brasiliane.
Mio padre aveva una passione per gli animali, mentre mia madre non li soffrì mai, nemmeno quelli domestici: ma lei non osava vietare che molte bestie di varie specie vivessero con noi, nel grande cortile e dentro casa. Gli indios avevano saputo di quella passione del medico, e facevano a gara per portargli bestie, anche stranissime, che mio padre accoglieva con entusiasmo, teneva per qualche tempo libere o incatenate nel cortile, e poi faceva riportare nella foresta. Ricordo bene l’arrivo di un enorme tamandua-bandeira (una specie di formichiere amazzonico col pelo lungo e la coda a ventaglio) che a me parve grande come un vitello, e stava fermo e triste incatenato in cortile, finché un giorno mio padre decise di andare con un carro a cavalli, su cui aveva fatto salire anche me, a liberarlo in una zona piena di termitai rossi che a me sembravano alti come capanne. Libera in cortile stava invece la capibara, un roditore identico ai porcelli d’India ma grande come una pecora, vegetariano e inoffensivo: un giorno andai in cortile mangiando un panino: la capibara mi si avvicinò, sentì l’odore del panino, si rizzò sulle zampe posteriori per prenderlo con i due grandi denti che vidi bianchissimi addosso alla mia faccia, mi rovesciò a terra e io mi feci un taglio sulla punta del mento, con molto sangue. Mio padre mi cucì la ferita. Rimase una cicatrice, visibile ancora oggi. La capibara fu rispedita nel Mato. Ma arrivò il veado, una specie di piccola antilope, graziosissima, con due lunghi e aguzzi cornetti paralleli. A mio padre piaceva farlo correre, velocissimo, nel cortile; finché un giorno il veado a tutta velocità andò a conficcare le due punte nel ginocchio destro di mio padre, che per qualche tempo dovette camminare con le grucce. Io avevo assistito alla scena, che mi sembrava tutto un gioco. Avevo fra i tre e i quattro anni. L’unica vera paura in quel cortile la ebbi una volta che mi ero avvicinato ad un giovane aiutante mulatto che mia madre aveva incaricato di portar via un mucchio di rottami. Stavo guardandolo mentre lavorava, e improvvisamente lui fece un balzo verso di me gridandomi dí star fermo, e col bastone della scopa diede un gran colpo vicino ai miei sandali trafiggendo un enorme ragno nero peloso: sentii uno scricchiolio, vidi uscire dal corpo del ragno che si contorceva a terra un liquido arancione che mi fece molto schifo, ma mi mossi solo quando quel ragazzo mi disse di rientrare in casa. A me quel ragno tutto pelo mi sembrò grande come un catino, e così lo ricordo. Quando mio padre lo seppe, disse che era un migale, velenosissimo, e diede molte monete al giovane mulatto. Vari animali, non pericolosi, erano anche dentro casa: un armadillo, che andava sempre a nascondersi sotto i mobili, e mi piaceva molto; alcuni pappagalli multicolori; un soffré, che era un uccello nero lucente, sottile, bello, che ricantava benissimo e subito le canzoni che gli venivano fischiate davanti, ed era l’unico animale che piacesse a mia madre. Ma in casa il suo Siro teneva in gabbie di rete anche dei serpenti dai colori vivaci, e ricordo che li nutriva con uova sode e animaletti, socchiudendo uno sportellino posto in alto. Molto importante, nella casa di Jequié, fu per qualche tempo la presenza di Chico, una piccola scimmietta dal volto simpatico che sembrava sorridere sempre. Chico era mobilissimo, saltava senza sosta sulle persone, sui mobili e sugli alberi, ma non se ne andava mai via da casa. Un giorno i miei genitori erano seduti in giardino sotto un grande albero con degli amici, e c’ero anch’io. Improvvisamente arrivò Chico, saltò sul tavolino, afferrò una tazzina e si arrampicò sull’albero passando da un ramo all’altro. Ricordo mia madre che gridava: – Chico, porta qua la tazzina! -; lui si fermò a guardarci dall’alto, facendola oscillare da un dito infilato nel manico. Mia madre insisteva. E alla fine Chico scagliò giù la tazzina, che andò in mille pezzi. Tutti ridevano, tranne mia madre.
L’ultima storia di animali mi riguarda direttamente, e tutte le volte che l’ho ripensata mi è parsa incredibile, benché mia madre mi abbia poi confermato che era realmente accaduta. Mio padre aveva un fucile, forse due. Un giorno, insieme al suo aiutante di fiducia Everaldino, un meticcio alto e magro, mi prese con sé e mi portò lontano, dove cominciava la foresta; c’era un piccolo villaggio di capanne vicino a un fiume, largo e molto verde. Si fece prestare una barchetta, dove mi pose a sedere. Everaldino remava, mio padre teneva il fucile. A un certo punto mi spogliò nudo, mi disse: – Adesso impari a nuotare -. Mi buttò nell’acqua gridandomi: – Nuota, nuota! -. Nel fiume c’erano degli jacaré, dei caimani. Io non li vedevo, non avevo paura, cercavo di nuotare. E mio padre si mise a sparare a qualche jacaré che stava avvicinandosi. Udii molti spari, che mi parevano fortissimi. Poi mio padre si sporse dalla barca, mi tirò dentro, e mi disse: -Bravo, sei stato coraggioso -.
Il viaggio
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