Mestieri
pedagogistaLivello di scolarizzazione
laureaPaesi di emigrazione
Burundi, SomaliaData di partenza
1996Periodo storico
Periodo contemporaneo (dal 1977 ai giorni nostri)Silvia Montevecchi nel 1996 è in Burundi. Il paese è attraversato dalla guerra civile e la popolazione vive in condizioni al limite della sopravvivenza. Silvia è lì per aiutare le persone e offrire le proprie competenze.
Muyinga, 22 novembre, venerdì
La mattina qui ci si sveglia con un concerto incredibile di uccelli (tantissimi, splendidi), zanzare e muezzin.
23 novembre, sabato
Ho iniziato il lavoro. Ho fatto vari giri nei campi più vicini: sono tredici quelli seguiti da noi, anche molto lontani tra loro, a varie ore di fuoristrada. Fortunatamente con Paolo mi trovo benissimo e passiamo un sacco di tempo a parlare. Ho conosciuto l’esigua fauna bianca di Muyinga: oltre a noi tre italiani, 4 donne canadesi, una californiana, un ragazzo australiano.
Oggi pomeriggio abbiamo fatto uno splendido giro a piedi fuori la città, tra capanne che sbucano in mezzo ad una fitta coltivazione di banane. La sensazione è inebriante e le casette non sono male.
Niente a che vedere con quelle dei campi, fatte solo di foglie e ricoperte con i teli blu dell’ Onu. Alcune sono talmente malconce che noi non ci terremmo neanche gli animali da cortile.
Il nostro collaboratore, Prospèr, mi ha portato in una, piccolissima, con una famiglia di cinque persone. Erano così felici della mia visita! La donna, come al solito, intimidita. E io volevo parlare proprio con lei e lei, inevitabilmente, mi ha posto le classiche domande africane: dov’è tuo marito e quanti figli hai (sob ! Con i miei quasi 35 anni, in Africa sono ormai una vecchia, e avrei potuto mettere al mondo una decina di marmocchi). Le ho spiegato che non ho né l’uno né gli altri e lei si è messa a ridere dicendomi “Perché ?! E’ così facile sposarsi e fare bambini!”
Domenica 24
Non ho la minima idea di quando questi miei scritti potranno partire, dato che dipende tutto da quando c’è qualcuno che lascia il Burundi. Spesso qualcuno va in vacanza a Nairobi o transita per il Rwanda, e tutti allora lo usano da postino. Però intanto scrivo. Mi serve. Mi piace. Mi manca molto il fatto di non poter comunicare con l’esterno, di non poter ricevere posta. Insomma, è un po’ come essere in un eremo. Sono in una casa bellissima, con il prato davanti. A volte mi metto lì a leggere, e guardo lo splendido paesaggio di colline che si apre davanti : è già la Tanzania. Mi manca solo un amaca, per il resto mi ricorda molto Cereglio!
Giovedì 28
Sto entrando poco a poco nel ruolo (non è facile capire qual è). Il lavoro che devo fare è molto bello ma anche molo vario e complesso, e devo imparare un sacco di cose. A grandi linee, si tratta di due ambiti: da un lato c’è il lavoro di formazione per gli insegnanti, già cominciato dai miei due colleghi, nei campi di sfollati. Questo è molto simile a ciò che faccio in Italia solo che qui la formazione è estremamente di base. Gli educatori sono stati scelti nei campi, hanno a loro volta una scolarizzazione molto bassa, non parlano francese, e sono anche loro, come i bambini, traumatizzati dalla guerra. Se non ci fosse questa attività da parte nostra, i bambini dei campi sarebbero totalmente abbandonati al loro destino, perché sono qui “provvisoriamente“, quindi per loro non c è nessuna struttura, neppure l’assistenza sanitaria. Questa provvisorietà poi, potrebbe durare anche a lungo, dipende tutto da come si evolve la situazione del paese. Dunque il punto è: trasformare in educatori competenti delle persone che non hanno alcuna esperienza. E solo quando si lavora in condizioni cosi ci si rende conto di cosa vuol dire, a livello intellettivo, per un bambino, crescere con una deprivazione incredibile di stimoli. Per esempio non sapere cosa sia uno specchio, per cui non conoscere la propria immagine, non avere nessuno strumento che stimoli l’intelligenza astratta, quindi rimanere a forme di ragionamento molto concrete, che ti impediscono di apprendere per simboli e di pensare cose che non ci sono. Se qui chiedi a un bambino cosa vuol fare da grande, nessuno ti dice il medico o l’ingegnere. Sono mondi per loro del tutto inimmaginabili. Utopie. Dunque: come si può aiutare un bambino a costruire qualcosa che non sa che esiste? E se si tiene conto che le persone scelte come educatori sono molto probabilmente cresciute nelle stesse condizioni, il lavoro da fare è enorme. Non ero più abituata a situazioni di privazione così grave. Mi ero abituata bene in Senegal: una classe di intellettuali, impegnati socialmente e politicamente. Qui, soprattutto gli hutu, sono stati da decenni tenuti ai margini, oppressi, senza nessuna assistenza. E il risultato non potrebbe essere diverso.
L’altro lato del lavoro comprende invece la gestione generale del progetto: il coordinamento delle attività per i casi vulnerabili dei campi, con la distribuzione di cibo, coperte, prodotti per la cucina e per l’igiene di base. Tutti prodotti forniti dal PAM e dalla Croce Rossa. Quindi a nostra volta dobbiamo fare periodici rifornimenti e rapporti dettagliati sulla distribuzione. Poi c’è la gestione della contabilità, con i salari per tutti i collaboratori impiegati, gli insegnanti e gli animatori dei campi, i cuochi delle cucine, i sarti che riparano gli abiti dei bambini.
Insomma, un bel po’ di roba. Abbiamo due collaboratori molto in gamba, Prosper e Nestor, che fanno ormai di tutto: contabili, formatori, interpreti. Le serate a Muyinga sono ‘tranquille’ nel senso più totale del termine. Non si fa proprio nulla, passo molto tempo a leggere, studiare, scrivere. A volte ci si dimentica di essere in un paese in guerra, perché non ci sono bombe, sparatorie, feriti. Puoi andare tranquillamente a fare passeggiate tra le colline. Però l’atmosfera generale è piuttosto triste e pesante. Non si sente, come nel resto dell’Africa, la gente ballare e fare musica fino a notte fonda. Non si ha tanta voglia di festeggiare qui. E poi, ci sente un po’ in prigionia. Molte strade del paese non si possono fare per via degli scontri, e anche se si possono fare, c’è il problema del gasolio che costa molto caro, al mercato nero, per via dell’embargo. Insomma, è un esperienza bella, ma certo non facile.
Vi abbraccio tutti. Silvia.
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